Un giudizio diverso sul conflitto Israele e Hamas.

Nell’affrontare una riflessione su quanto sta accadendo in Terrasanta, nel conflitto tra lo stato di Israele e il gruppo terroristico di Hamas e i collegamenti con altri paesi, non è possibile evitare la sensazione che in qualche modo si abbia a che fare con un mistero. Perché quella terra non è una terra qualsiasi.

Qui ha preso origine quell’alleanza singolare di Dio con un popolo, quello ebraico, l’Israele biblico, che, iniziata migliaia di anni fa, si prolunga fino ad oggi attraverso vicende storiche spesso tragiche. Qui quello stesso Dio ha scelto di farsi uomo per indicare a tutti la via della salvezza attraverso la presenza reale del Suo corpo che è la Chiesa.

Qui ha preso le mosse la religione fondata da Maometto che ha fissato in un Dio lontano, e immutabile nella sua parola chiusa nel Corano, una religione-stato il cui rapporto con le altre due è fin dalle origini conflittuale quando non di vera e propria oppressione e violenza (al di là delle troppo facili semplificazioni tipo “le religioni del libro” o “le religioni di Abramo”).

Nella ricerca delle cause del conflitto, e delle sue possibili soluzioni, non bastano i consueti strumenti di lettura: motivazioni economiche (rapporti con i paesi del golfo, via della seta contro via del cotone), politico-diplomatiche (vista l’insipienza di ONU e Unione Europea). Manca totalmente una presa in esame del fattore religioso che pure è al fondo di tante conseguenze politiche anche drammatiche.

L’Occidente ha costruito nei secoli (non senza drammi, sofferenze e lutti), un sistema dei diritti delle persone che ha trovato il suo culmine nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani approvata dall’Assemblea della Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. Quanto sta avvenendo oggi (e non solo oggi e non solo in quella terra) è sempre di più agli antipodi del contenuto di quella Dichiarazione realizzata solo grazie alla lungimiranza di alcune persone illuminate che avevano ancora negli occhi i disastri della guerra mondiale.

Nel percorso di affermazione dei valori messi sulla carta, l’Occidente si è man mano dimenticato del fattore religioso (ben definito nell’art.18 del documento) che è invece una presenza fondamentale in gran parte delle culture del mondo, e in particolare nei paesi islamici in cui la religione è legge dello stato, oltre che alimento di fondamentalisti solitari o organizzati.

Ratzinger aveva ben compreso e affrontato questo problema quando, appena prima di essere eletto al pontificato, aveva ricordato che: “la questione religiosa (…) è un aspetto fondamentale per tutte le culture: il rispetto nei confronti di ciò che per l’altro è sacro, e particolarmente il rispetto per il sacro nel senso più alto, per Dio (…) Laddove questo rispetto viene infranto in una società, qualcosa di essenziale va perduto.”

Dopo aver ricordato che il cristianesimo è l’unica religione che può essere impunemente attaccata e vilipesa, così concludeva “C’è qui un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì, in maniera lodevole, di aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro. (…) l’andare incontro con rispetto agli elementi sacri dell’altro, lo possiamo fare solamente se il sacro, Dio, non è estraneo a noi stessi.

C’è un altro grande insegnamento di Ratzinger (questa volta di papa Benedetto XVI) che ci è di aiuto in questa circostanza . Nella lezione all’università di Ratisbona, tanto contestata dagli ambienti islamici e poco capita (perché poco letta e studiata) dalla cosiddetta intellighenzia cattolica, possiamo leggere tra l’altro: “con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell’uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle.

Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza (…) Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni – un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l’opinione che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall’universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell’ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture”.

Un criterio diverso è quello di cui abbiamo bisogno per giudicare. Imparando da chi lo sperimenta già oggi. In questo senso il ruolo che sta svolgendo il cardinale Pizzaballa è esemplare. In particolare possiamo far tesoro della lettera alla sua diocesi e del messaggio vocale inviato a quei pochi cattolici di Gaza. (merita la lettura integrale, si trova per es. qui: Il Cardinal Pizzaballa: “È tempo di fermare questa guerra, questa violenza insensata. È Cristo sulla croce” | Korazym.org).

Pizzaballa non rinuncia a cercare le cause della situazione attuale e le relative responsabilità, ma il suo criterio affonda nel Vangelo “una parola che abbia la sua origine nel Vangelo di Gesù, perché in fondo è da lì che tutti noi dobbiamo partire e lì dobbiamo sempre ritornare. (…) Abbiamo bisogno di una Parola che ci accompagni, ci consoli e ci incoraggi. Ne abbiamo bisogno come l’aria che respiriamo.

“Vi ho detto questo perché abbiate pace in me. Nel mondo avrete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!” (Gv 16,33).Ci troviamo alla vigilia della passione di Gesù. Egli rivolge queste parole ai suoi discepoli, che di lì a poco saranno sballottati come in una tempesta di fronte alla Sua morte. Saranno presi dal panico, si disperderanno e fuggiranno, come pecore senza pastore. Ma questa ultima parola di Gesù è un incoraggiamento. Non dice che vincerà, ma che ha già vinto. Anche nel dramma che verrà, i discepoli potranno avere pace. Non si tratta di una pace irenica campata in aria, né di rassegnazione al fatto che il mondo è malvagio e che non possiamo fare nulla per cambiarlo. Ma di avere la certezza che proprio dentro tutta questa malvagità, Gesù ha vinto. Nonostante il male che devasta il mondo, Gesù ha conseguito una vittoria, ha stabilito una nuova realtà, un nuovo ordine, che dopo la risurrezione sarà assunto dai discepoli rinati nello Spirito”.

Per riprendere il tema del mistero, e del dramma che lo accompagna da sempre, assieme alla fede e alla speranza, possiamo ricordare il testamento del priore di Thiberine, padre De Chergè, ucciso assieme ai suoi confratelli in Algeria da fondamentalisti islamici dopo anni di convivenza pacifica e di collaborazione e servizio con gli abitanti del villaggio vicino “La mia morte, evidentemente, sembrerà dare ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo, o da idealista: “Dica, adesso, quello che ne pensa!”.

Ma queste persone debbono sapere che sarà finalmente liberata la mia curiosità più lancinante. Ecco, potrò, se a Dio piace, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i Suoi figli dell’Islam così come li vede Lui, tutti illuminati dalla gloria del Cristo, frutto della Sua Passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre di stabilire la comunione, giocando con le differenze”.

Solo da uno sguardo diverso nasce un giudizio adeguato sulla realtà.

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