Natale da nonna Checca

Pubblichiamo il ricordo del Santo Natale in quelle terre conosciute come il “Confine Oriental”. Giornate di festa, ricche di dolcezza, il dialetto che risuona come una dolce musica, un Natale  dal sapore di un altro tempo, che purtroppo oggi vive solo nei ricordi di poche persone.

di Annamaria Crasti 

«Era magrissima, fragilissima.
Di nonna Checca ricordo una frase indimenticabile, che mi ripeteva sempre, nell’anno in cui i titini mi hanno impedito di tornare dai miei genitori a Trieste.
Magrissime sia lei che io, strette in un abbraccio forte tenace.
Mi teneva stretta e mi mormorava la frase più dolce del nostro dolce dialetto istro-veneto
“Vissere mie ! “
Viscere mie !
Era una casa buia la casa di nonna Checca.
Del piano di sopra ho vaghe immagini…
vagamente rivedo una stanza grande un letto matrimoniale gigantesco un armadione enorme e un “lavaman”, una brocca per l’acqua appoggiata su una lastra di marmo chiaro ed un lunghissimo asciugamano candido di lino con tante frange.
Dalla finestra si scorgeva un superbo melograno che regalava grossi rossi frutti.
Eppure dovevano esserci tante altre “camere de leto”.
In quella casa vivevano zio Piero e sua moglie, zia Mariuci Sforzina.
Non c’erano bambini.
Gli zii avevano perso Loretta e Pia piccolissime, di due tre anni.
A Orsera si diceva “ le diventava tute blu”.
Fossero nate a Bergamo, negli anni ‘60, il professor Parenzan le avrebbe operate e salvate.
In quella casa si sentiva il silenzio, rotto solo, quando vi andavo, dalla mia voce di bambina che chiedeva parlava gridava e correva intorno al grande tavolo rotondo della cucina: tanti anni prima in quella casa vivevano in tanti, i figli erano sei.
Quella di nonna Checca era una casa triste, senza voci, senza risate, senza vita che si animava solo per il periodo natalizio.
Di quella casa triste ricordo la cucina, spaziosa.
Il pavimento di mattonelle esagonali rosse e nere.
Tanti bei mobili antichi in legno scuro.
Le pareti alte. Ad una parete, appesa, una grande fotografia
,in bianco e nero, leggermente ingiallita, di una ragazza bellissima dai capelli lunghi , zia Jolanda“ la fia bela”.
Era morta a 19 anni, uccisa in pochi giorni da una polmonite fulminante.
Nonna Checca non aveva potuto accettare quella perdita.
Non voleva che gliela portassero via in Cimitero; di notte correva al Campo Santo per farle compagnia , diceva.
Da quella scomparsa la vita di nonna era finita, straziata da un dolore che non passava mai, che non è mai passato.
Un angolo della grande cucina era tutto occupato da un largo accogliente “ fogoler”.
Occupava quasi due metri per lato di quell’angolo; alto sul pavimento, bordato da lucidi larghi lastroni di pietra – la bella bianca pietra di Orsera- che servivano da sedili.
Dal camino pendeva una lunga catena a larghe maglie, annerita dal fumo. Appeso un grande paiol di rame per la polenta.
El fogoler, in quella casa, era l’unico luogo della casa animato. La’, la nonna ciacolava con le sue amiche; seduta su quelle lastre bianche, scriveva i testamenti dettati da chi non sapeva scrivere, diventando, in quella situazione, la “ notaia “ del paese, dando pareri e consigli, anche perché il suo figlio maggiore, Nicoletto, era notaio a Cervignano.
Nel fogoler si cucinava, nel paiol appeso alla catena annerita, la polenta. Quasi una cerimonia, antica, dai gesti ripetuti da secoli.
Prima il “pugneto de sal “ e, quando finalmente bolliva l’acqua, a pugni pieni, la farina gialla che lentamente, si spargeva nel liquido mescolandola con la lunga “ caza “ – mestolo – di legno con gesti lenti misurati.
Era zio Piero che compiva quella cerimonia, che, dopo una buona ora chino a mescolare, versava la polenta bollente gialla soda sul taier e la tagliava con un grosso filo. Di solito la si mangiava col brodeto de pese, col pese frito o col sugo de galina.
Ma quel fogoler, sempre fulcro della vita di casa, alla Vigilia di Natale, diventava un luogo , il luogo, reso magico dalla sacralità della festa.
Con solennità, alla sera, vi si adagiava “ el zoco “ – il ceppo- , a casa di nonna sempre di ulivo.
El zoco era il più antico segno del Natale.
Prima del Presepe, prima dell’albero di Natale arrivato negli anni ‘30.
Lentamente doveva ardere fino a Capodanno, rendeva tutti felici se bruciava fino alla Befana per antiche credenze scaramantiche: portava fortuna.
Con le rosse falische e lo scoppiettio rallegrava grandi e pici.
Mi rivedo picia di sei anni con le molete in mano dar dei colpi al zoco per veder alzare , alte, verso il camino le scintille allegre rosse segno di vita e di gioia.
E finalmente quella casa silenziosa si riempiva di chiacchiere, di sorrisi.
Finalmente anche gli occhi di nonna Checca, sempre tristi, riprendendevano vivacita’, la sua voce tornava ad essere quella di tanto tempo prima, di quando “ la fia bela “ riempiva la casa di vita.
Preparava persino le fritole natalizie, delizia per tutti noi che le aspettavamo con ansia golosa: una morbida dolce squisitezza.
Smetteva gli abiti neri del lutto, che portava ogni giorno, per indossare un vestito, sempre quello, ogni Natale, marroncino con il bel colletto di pizzo bianco.
Era una gioia vederla muoversi di nuovo energica, mentre si accingeva a preparare la tavola della Vigilia con insolita cura, facendo ripetere a me bambinetta una poesia che ancora ricordo:
“ A tavola bambini,
Le castagne son cotte
La neve sui cammini
Fa più zitta la notte.
Un bel fuoco di legna
Scalda le mani e il cuore
Dove la pace regna
E’ arrivato il Signore.”
Quel Signore che quella notte, illuminata dalla brace, non rimproverava di averle rubato la figlia.
Per la mia mamma, per i miei zii era un cambiamento che spiegavano solo con la presenza di quel tronco d’olivo che, bruciando lentamente le infondeva una forza ed un vigore che si spegnevano quando quella flebile luce si esauriva e, contemporaneamente, si spegneva il suo breve approccio felice con noi e la vita.
E quei bei mobili di legno scuro ?
Anch’essi, all’ alzarsi delle faville, prendevano forme nuove, sembravano muoversi, assumevano colori più vivi, qualche angolo si smussava, sembrava danzassero una lenta danza al suono dello scoppiettio del zoco.
Ma quel grosso ramo, in quegli ultimi due Natali trascorsi “ a casa “ aveva un altro importante significato.
Quel zoco, anche se molto grosso, non riusciva a riscaldare la grande cucina, ma scaldava i cuori, ci esortava a non perdere la speranza nei giorni cupi in cui si doveva prendere la drammatica decisione se “ restar o ‘ndar via”.
Quel tronco era il conforto che curava vecchie e recenti ferite.
Era il simbolo della famiglia riunita che leniva la paura di un futuro incerto e sconosciuto e donava un po’ di serenità.
In Istria la leggenda diceva che quel zoco serviva a Maria e Giuseppe per asciugare i panisei del Bambino.
Quel zoco che ardeva per giorni e giorni era una tradizione che nelle case di Orsera e nell’Istria si ripeteva da secoli, come tanti altri usi e tradizioni.
Gesti e tradizioni perduti con l’abbandono delle nostre case, con l’essere stati sparpagliati ovunque, le famiglie patriarcali divise, i riti man mano dimenticati perduti con la scomparsa dei nonni e dei genitori, loro unici testimoni.
Quei momenti di intima gioia, rallegrati
dal zoco acceso scoppiettante non si sono ripetuti mai più.
Quanta nostalgia addolcita dal profumo dell’ulivo che bruciava, che sento ancora nelle narici… ! E che non si spegne il giorno della Befana.
Il rimpianto del zoco dello scoppiettio delle faville del fogoler di quei riti di quella vita lo porto dietro da tutta e per tutta la vita».

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