Nei salotti radical-chic attenti alle parole

di Daniele Carozzi Con i tempi attuali, è meglio stare in guardia da certi rischi che si potrebbero correre frequentando i salotti bene, quelli progressisti; quelli dove c’è l’atmosfera magica di “la cultura siamo noi”. Quelli che le persone ignoranti, insomma chi vota conservatore, chiamano “radical-chic”.

In tali ambienti, l’uso della parola è di estrema importanza. Per ciò che scappa in un discorso, potete essere valutati, soppesati, esaminati e quindi promossi o ignorati.

Se ad esempio avete un figlio di diciotto o diciannove anni che sta piacevolmente vivendo il suo tempo, non vi scappi di dire che sta godendo la sua “giovinezza”! Molto meglio dire che sta vivendo da vero teenager. Oppure, se volete essere un po’ provinciali, che sta godendo la sua gioventù. Giovinezza no. È sconveniente.

Può ricordare anni di inni, di camicie nere e olio di ricino… Non potete infatti pretendere che in ambienti così ben acculturati si sappia che di giovinezza ne scrisse persino Lorenzo il Magnifico nel “Trionfo di Bacco e Arianna”, o che la grande rappresentazione teatrale “Addio giovinezza” scritta da Camasio e Oxilia ai primi del Novecento (e messa su celluloide nel 1940) fu una delle più belle commedie di avventura sentimentale e goliardica nella Torino degli universitari.

Non solo, ma l’inno “Giovinezza”, tanto in cuore al regime, fu rubato da una canzone studentesca che diceva “…son finiti gli anni lieti degli studi e degli amori, o compagni in alto i cuori e il passato salutiam… Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza…”. Ma non perdete tempo a spiegarlo. Altro lemma da evitare nel modo più assoluto, è quello di “camerata”. Mai vi venga in mente di uscire con un infelice “l’altro giorno ho incontrato un vecchio camerata! Anche lui aveva militato nel mio reggimento a Cividale del Friuli…”.

Vi sentireste addosso occhi di bragia e qualcuno potrebbe togliervi il saluto o decidere di cancellarvi dalla mailing list degli inviti. Per noi che abbiamo fatto la naja, ma allo stesso modo per chi ha studiato in collegio o diviso lo spazio in un pensionato universitario, il “camerata” è semplicemente il compagno con il quale hai dormito nella medesima camera, o camerata.

Accade quando il nome dell’ambiente investe il soggetto: si chiama metonimia. Ma chi sta all’erta per ogni rigurgito nostalgico, non entra in tali dettagli. Ogni parola può essere un indizio, e ogni asserzione non conforme alla ipersensibilità di chi è antropologicamente superiore, e quindi progressista, una condanna.

Grande attenzione va posta anche durante i brindisi. Non vi salti in mente di dire “a noi”, nel senso di “auguri di buona salute a tutti noi”. Potreste essere accusati di “apologia di fascismo”. E qualche schieratissimo giudice presente nel salotto (non mancano mai), potrebbe farvi pervenire un avviso di garanzia e successiva accusa per volontà di ricostituzione del vecchio regime.

Altra parola poco gradita negli ambienti di cui sopra, è “alleati”. Parola un poco fastidiosa se si allude a quei novantamila Alleati che lasciarono la pelle sul suolo italiano nel 1943-45. Sì, certo, qualcuno degli invitati ammetterà con aria di sufficienze che essi diedero una mano alla gloriosa ed eroica resistenza antifascista, la quale avrebbe comunque fatto da sola. Ecco, a questo punto sforzatevi di non ridere e di non raccontare la storiella della mosca posata su un corno del bue che dice ad un’altra mosca “… vedi? Stiamo arando”. Da un processo per direttissima con l’accusa di vilipendio alla Resistenza, non vi salverebbe nessuno!

Ma non è finita qui. Un termine da sempre sgradito nei salotti dei sessantottini al caviale, è la parola nazione. Addirittura può provocare l’orticaria se scritta con la maiuscola. Ma, fortunatamente, parlando non si sente. Eccerto!

Nazione porta il medesimo etimo di nazionalismo, nazionalista, nazi… e mi fermo qui! È in questi ambienti invece assai gradito il termine Paese. Meglio se scritto con la minuscola, perché lorsignori detestano la retorica. A meno che non riguardi la Resistenza, l’antifascismo e l’immacolato eroismo dei partigiani… Paese è invece ritenuto più significativo se con la minuscola, così si configura (e confonde) con qualsiasi borgo di poche case, rappresentativo di comunità senza storia, né particolari ambizioni, né orgoglio, né identità o sovrana dignità da difendere.

Ovvero un “paese” suddito, umile, senza ambizioni e sottomesso ad altri. Ciò che lorsignori, da sempre, hanno contribuito a creare e ne sperano per il futuro.

Se poi, nel salotto buono, la discussione va sulla politica, fate attenzione a non mostrarvi specificatamente “antifascisti”. Se ad esempio affermate di essere antitotalitari, ovvero contrari ad ogni e qualsiasi forma di regime oppressivo o autoritario, sicuramente non vi guadagnerete l’invito al prossimo party. Ed è presto spiegato.

Nell’antitotalitarismo, voi includete anche quel tal regime dalla falce e martello che fece circa cento milioni di vittime nel mondo, con epurazioni, razzismi e torture. Ma che nonostante ciò è ancora nel cuore di suoi figli e nipotini con un sospiro e una lacrimuccia. Perché fra loro ancora c’è chi sostiene che quel regime “era buono ma fu applicato male” o che “alcuni compagni sbagliarono”. E, proprio quel regime, esprimeva tutta la sua umanità e leale competizione politica nell’affermare e scrivere ovunque che “uccidere un fascista non è reato”.

Dulcis in fundo, se per puro caso abitate a Milano in via Balilla e frequentate ambienti progressisti e d’avanguardia, il consiglio è di cambiare residenza. Vi trovereste nella via un capannello di esagitati con cartelli e manifesti per chiedere al sindaco Sala, il quale sarebbe capacissimo di farlo, di abbattere quella targa civica e cambiare nome alla strada. “È vergognoso – urlerebbero i protestatari a tempo pieno, quelli dell’antifascismo un tanto al chilo e a loro inculcato dalla scuola marxista del dopo Sessantotto – che sussistano tracce così evidenti del periodo fascista”.

Ma non ne avrebbero colpa. Nessuno infatti ha mai spiegato loro che “balilla” è il soprannome attribuito a Giovan Battista Perasso, il ragazzino genovese che nel 1746 diede inizio alla sollevazione popolare verso l’occupante austriaco, scagliando un sasso contro i gendarmi che obbligavano alcuni genovesi a rimuovere un cannone in panne. Un simbolo di libertà e di indipendenza dunque.

E ora, attenti ai salotti buoni. Le parole a volte sono pietre. Ma molto spesso un pretesto.

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