Storia dei cosacchi in Carnia e Alto Friuli

L’occupazione dei cosacchi in Carnia e nell’Alto Friuli” il tema affrontato giovedì 12 Novembre all’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia,   riguarda l’occupazione della Carnia e zone dell’alto Friuli da parte dei cosacchi negli ultimi nove mesi della seconda guerra mondiale, relatore dell’incontro Claudio Giraldi.

di Claudio Giraldi Fra l’ottobre del 1944 e l’aprile del 1945 decine di migliaia di cosacchi e di caucasici, trasportati dalla Russia e dall’Europa orientale, vennero a insediarsi nell’Alto Friuli e nella Carnia, spesso con una difficile convivenza con le popolazioni locali.

Erano stati mandati dai tedeschi nel “Kosakenland in Nord Italien”, la terra che era stata loro, se non promessa, quantomeno affidata, in cambio di una collaborazione militare in funzione anti partigiana. Per sette mesi i cosacchi cercarono di ricostituire nell’Alto Friuli i loro villaggi, le “stanitse”, riproponendo costumi, tradizioni, religione delle lontane regioni russe.

Le motivazioni del singolare stanziamento

Litorale Adriatico”, così lo avevano definito, riprendendo un vecchio mito asburgico, i nazisti che, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, avevano occupato il Friuli, Trieste e l’Istria, istituendovi la Zona di Operazioni del Litorale Adriatico una sorta di protettorato, retto dal gauleiter Friedrich Rainer.

Nel Litorale Adriatico, per mesi, dopo l’8 settembre, venne dunque attuata ogni forma di azione punitiva per reprimere la diffusione del movimento partigiano che pure, nonostante ciò, trovò modo di consolidarsi e di ottenere anche significative affermazioni, come la costituzione, nell’estate del ’44, di due Zone Libere, quella del Friuli Orientale e quella della Carnia.

Contro questa minaccia, e per riprendere il controllo sul territorio e garantirsi la sicurezza di transito sulle principali vie di comunicazione, le autorità militari naziste, affidarono a unità collaborazioniste il compito di occupare stabilmente i centri abitati e mantenervi un saldo presidio.

A questa incombenza vennero designati i cosacchi e i caucasici, nell’ambito del progetto nazista di contrastare e sradicare il movimento partigiano.

MA CHI ERANO I COSACCHI E COME ERA ACCADUTO CHE ESSI AVESSERO ADERITO ALLE IDEOLOGIE NAZISTE?
Per trovare delle risposte adeguate alle scelte adottate dai cosacchi negli anni della seconda guerra mondiale, bisogna risalire piuttosto indietro nel tempo, all’epoca della costituzione in comunità organizzate di queste popolazioni.

Dal XV al XVII secolo in Russia, sotto gli Zar, vigeva infatti la dura condizione dei servi della gleba, per sfuggire alla quale alcuni coraggiosi, amanti della libertà, cercarono di allontanarsi, sino alla periferia dell’impero, dove non arrivava il potere feudale né quello centrale a imporre le regole.

“Kazak” o “Cosacco”, è un termine che deriva dal turco e significa “uomo libero, errante”: così vennero quindi definiti quegli uomini forti andati alla ricerca di nuove terre, dove insediarono le loro stanitse, villaggi che si autogovernavano sia economicamente che militarmente, rette da un capo espressamente nominato, l’Ataman.

Quando il potere zarista comprese che gli insediamenti cosacchi alla periferia dell’impero potevano costituire un avamposto contro gli attacchi esterni, le scorrerie dei popoli tartari e turchi, venne loro assegnata una funzione di privilegio, delegandoli però alla difesa dei confini.

I cosacchi, fuggiti dalle imposizioni dello stato russo, vennero così integrati in quello stesso stato e, col tempo, diventarono una sorta di fedelissimo braccio armato del potere, sino a costituirsi in corpo specializzato da utilizzare nelle campagne belliche (nel 1812 furono tra i principali artefici dell’esito disastroso della campagna napoleonica in Russia) ed anche uno strumento di repressione verso le frequenti rivolte contadine.

Abbattuto il potere zarista con la Rivoluzione del 1917, spazzata via la servitù della gleba, fuggita la nobiltà ed arrivati al potere i bolscevichi, i cosacchi vennero puniti per il loro ruolo di servitori dello Zar e combattenti con le Armate Bianche.

Un decreto del 1923 proibiva espressamente l’uso del termine “cosacco”; contemporaneamente veniva radicalmente mutata la toponomastica dei territori abitati dai cosacchi, abolendo i termini specifici che li potessero richiamare.

Con la salita al potere di Stalin prese avvio un percorso di repressioni, deportazioni in Siberia, esproprio e collettivizzazione delle terre, con eliminazioni fisiche dei principali responsabili del popolo cosacco, al fine di annullarne il concetto di nazionalità. 

Con l’invasione e l’occupazione dell’URSS da parte delle truppe naziste,1941, diverse popolazioni della Russia meridionale trovarono apparentemente accolte le proprie rivendicazioni autonomistiche.

Facendo quindi leva sul sentimento antibolscevico di queste popolazioni, i nazisti riuscirono così a trovare dei nuovi alleati.

Furono infatti attorno al milione i russi inquadrati nell’apparato militare tedesco: migliaia di esuli zaristi fuggiti all’epoca della rivoluzione bolscevica, centinaia di migliaia di prigionieri di guerra, i componenti di comunità e gruppi etnici (quali appunto i cosacchi) ostili al bolscevismo che avevano seguito, anche fisicamente, le sorti delle armate tedesche.

Le popolazioni cosacche, aggregatesi agli invasori nazisti, vennero più volte spostate in Ucraina, in Polonia e nella Russia Bianca.

A queste genti era stato assicurato dai nazisti il ritorno alle terre di origine in un contesto di larga autonomia o, in subordine, l’assegnazione di nuovi territori.

É questo, in sostanza, il tenore del noto proclama del 10 novembre 1943 del ministro per i Territori Occupati dell’Est che diede origine al mito del “Kosakenland in Nord Italien”: e recitava:”In riconoscimento dei servigi da voi resi sul campo di battaglia, riteniamo quale nostro dovere promettere a voi, cosacchi del Don, del Kuban, del Terek e degli altri eserciti, nonché a quei russi che da lungo tempo hanno vissuto tra di noi e con noi hanno combattuto contro i sovietici, quanto segue:

1 – Tutti i vostri diritti e privilegi, che già ebbero a godere i vostri padri fin dai tempi più antichi; 2 – La vostra autonomia, che ha fatto la vostra storica fama; 3 – L’intangibilità del vostro possesso della terra, da voi acquistata con il lavoro vostro e dei vostri avi. 4 – Qualora gli eventi bellici dovessero rendere temporaneamente impossibile il ritorno nella terra dei vostri padri, noi faremo risorgere la vostra vita di cosacchi in altra parte dell’Europa, ponendo a vostra disposizione la terra e tutto ciò che è necessario per una vita autonoma.”

Con l’inizio della ritirata tedesca, venne individuato il luogo dove “far risorgere la vita cosacca”: la Carnia e l’alto Friuli. La decisione formale di inviare i cosacchi in Italia venne presa nel luglio del ’44, quando fu stipulato l’accordo che, autorizzava l’insediamento in Friuli confermando che: “Nei villaggi destinati ai cosacchi del Kuban, Terek e Stavropol, i residenti non saranno allontanati dalle loro abitazioni, ma dovranno comunque far posto alle truppe occupanti…”

Di lì a poco si giunse all’attuazione pratica dell’accordo, con l’autorizzazione al trasferimento di 4.000 caucasici (distinti burocraticamente in 2.000 “armati” e 2.000 “familiari”) e 18.000 cosacchi (poi saliti a 22.000: 9.000 “armati”, 6.000 “vecchi”, 4.000 “familiari” e 3.000 “bambini”) nel Litorale Adriatico.

Ebbe così inizio l’Operazione Ataman, che avrebbero portato, dopo un viaggio di settimane, i cosacchi in Italia. Le truppe cosacche e caucasiche giunsero in Italia, con migliaia di cavalli, carriaggi e masserizie, attraverso la linea ferroviaria Villach-Tarvisio, a partire dal 20 luglio 1944, con una serie di arrivi di convogli che si protrasse in maniera continuativa sino al 10 agosto, per poi assumere carattere di sporadicità.

La principale località di smistamento fu la stazione per la Carnia, tra i paesi di Venzone ed Amaro, dove giunsero complessivamente una cinquantina di treni; altri contingenti fecero scalo alle stazioni di Pontebba e di Gemona.

Prima dell’occupazione dei paesi, per circa un mese e mezzo, i cosacchi stazionarono dunque nella piana, tra il Tagliamento ed Osoppo, attorno alla storica fortezza. Altri gruppi presero stanza a Gemona occupando, sotto il controllo tedesco, alcuni edifici pubblici, come le scuole. Nella stessa Gemona venne fissata inizialmente la sede del comando del generale T. I. Domanov.

Migliaia di persone provate dal lungo, estenuante viaggio, cercarono una sistemazione provvisoria in diverse località, tentando di provvedere autonomamente alla soluzione delle necessità più impellenti, giacché praticamente nulla era stato predisposto per garantire mezzi di sostentamento e di assistenza adeguati. Fu così che reparti a cavallo cominciarono a battere le campagne e i centri abitati, razziando tutto quello che poteva servire a garantire un minimo di sopravvivenza.

Profondo stupore destarono dunque fra i friulani questi nuovi venuti. Erano infatti vestiti e armati nei modi più vari, molti in uniformi grigio-verdi tedesche con appena qualche variante cosacca, ma armati di moderni fucili e mitra, altri in più pittoresche uniformi dell’antica cavalleria zarista, con grandi colbacchi di pelo in testa, cartucciere intrecciate sul petto, bande azzurre o rosse alla cucitura dei pantaloni, con spade, pugnali e pistoloni.

Ai drappelli militari facevano seguito carovane di carriaggi sui quali viaggiavano donne, vecchi e bambini, e tra un carro e l’altro o al loro fianco cavalli, qualche mucca, qualche capra, a volte perfino cammelli o dromedari”.

Fu insomma l’aspetto umano, la variegata panoramica offerta dall’aspetto dei civili cosacchi, più che il lato strettamente militare, a colpire. La qualità e la quantità delle formazioni cosacche giunte in Italia suscitarono un palese disappunto da parte degli stessi tedeschi, i quali avevano sperato di poter disporre di reparti militari in assetto di guerra da impiegarsi immediatamente nelle azioni contro le forze partigiane e, viceversa, si trovavano invece di fronte a contingenti nei quali erano predominanti i civili.

L’arrivo delle formazioni cosacche non costituì, inizialmente, un fattore pienamente valutato da parte delle forze della resistenza che, probabilmente, non riuscirono a valutare interamente il carattere anti partigiano dell’iniziativa.

Contro i convogli e le tradotte giunte in Friuli attraverso la ferrovia non venne praticamente tentato alcun attacco o sabotaggio. Solo in un secondo momento, di fronte al concretarsi dell’insediamento, con la stabilizzazione dei centri di raccolta, vennero avviate alcune azioni di sabotaggio.

L’azione più importante avvenne nella notte tra il 26 e il 27 Agosto del 1944 quando i partigiani garibaldini dei Btg. Matteotti e Stalin sferrarono un attacco contro i cosacchi attestati nelle scuole di Campagnola di Gemona.

L’attività della resistenza nel Friuli 
Già nei giorni immediatamente successivi all’armistizio dell’8 settembre 1943 si erano costituite le prime formazioni partigiane, soprattutto nella zona delle Prealpi Giulie e a ridosso del confine con la Jugoslavia, sul Collio Goriziano.

Erano spesso gruppi spontanei, male armati; le formazioni maggiormente organizzate erano della Brigata Garibaldi “Friuli” che però, dopo un imponente rastrellamento tedesco del novembre ’43, abbandonarono la zona delle Prealpi Giulie per trasferirsi sulle Prealpi Carniche.

Fu tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera che i Battaglioni si rinforzarono, grazie soprattutto all’arrivo di numerosi giovani che, per sottrarsi ai bandi di arruolamento della RSI, salivano in montagna per entrare nelle formazioni partigiane.

Nello stesso periodo andavano costituendosi anche le formazioni della Brigata “Osoppo” i cui ispiratori erano rappresentanti della DC e del Partito d’Azione, col sensibile appoggio del clero: un’iniziativa nata con l’intento di dare vita a una formazione armata contro tedeschi e fascisti, coinvolgendo quei settori della popolazione che non si riconoscevano nelle formazioni garibaldine, di ideologia comunista.

Nell’estate del 1944 si ebbe dunque la massima espansione del movimento partigiano in Friuli. Alla fine dell’estate si conteranno tre Divisioni: la “Garibaldi – Friuli”, la “Garibaldi-Natisone” e la “Osoppo-Friuli”.

La continua opera di sabotaggio agli impianti tedeschi e l’eliminazione di decine di presìdi nazifascisti portarono alla liberazione di svariate zone, con la conseguente costituzione di due “Zone Libere”, quella del Friuli Orientale e quella della Carnia.

Questa sorta di area libera durò poco. Alla fine di settembre 1944 la 305° Divisione tedesca, appoggiata da tre reggimenti cosacchi e da alcuni battaglioni della RSI attaccarono la Zona Libera del Friuli orientale.

Dopo combattimenti protrattisi per alcune giornate, i partigiani si ritirarono verso il Collio goriziano. Dopo questa operazione che portò alla sostanziale eliminazione del movimento partigiano nella Valle del Lago e alla conseguente occupazione cosacca, le forze nazifasciste, dall’8 ottobre, diedero attuazione piena alla progettata “Operazione Waldlaüfer” che, in poche settimane, diede ai tedeschi il pieno possesso della Carnia.

All’inizio di dicembre erano stati sostanzialmente raggiunti i traguardi che i responsabili nazisti del Litorale Adriatico si erano posti, vale a dire l’eliminazione del pericolo rappresentato dall’organizzazione partigiana, la garanzia dell’assicurata sorveglianza delle principali vie di comunicazione, il controllo sostanziale della regione garantito dalla presenza delle unità collaborazioniste cosacco-caucasiche.

Nei primi mesi del 1945, le forze cosacche vennero spostate lungo i confini orientali per contrastare la minaccia delle forze partigiane slave: pattugliamenti, azioni di rastrellamento e imboscate, tennero impegnati costantemente i cosacchi che si scontrarono più volte con il nemico senza tuttavia riuscire ad annientarlo completamente, ma tenendolo comunque sotto controllo.

Le formazioni ribelli colpivano e si ritiravano velocemente evitando lo scontro frontale con le truppe tedesche e cosacche. Nel febbraio del ’45 giunse nella “Cossackia” anche il generale Krassnov, proveniente da Berlino, insieme a tutto il suo stato maggiore cosacco. I combattimenti contro i ribelli durarono fino alla tarda primavera del 1945 sempre caratterizzati da aspri scontri che videro tantissimi morti e feriti da entrambe le parti

Come furono i sette mesi di Kosakenland
I rapporti tra i carnici e gli occupanti furono inizialmente difficili, giacché si dovette dare in tempi brevi risposta alle necessità dei nuovi arrivati: alloggiamento, approvvigionamento di derrate alimentari, ricovero e mantenimento del bestiame e degli animali giunto al seguito dei cosacchi, il tutto aggravato da un atteggiamento di tracotanza assunto dagli occupanti.

Successivamente subentrò un periodo di relativo assestamento, cosicché la convivenza forzata tra occupanti e popolazione carnica poté instaurarsi lungo criteri di maggiore vivibilità e reciproca comprensione.

Nel territorio occupato vennero create 44 stanitse (presidi a costituzione mista civile e militare). Il quadro generale risulta abbastanza complesso e frammentario, e questo per la diversa matrice etnica e culturale degli occupanti. I cosacchi erano divisi in più eserciti, indicati col nome del fiume che attraversava le terre di origine (cosacchi del Don, del Terek, dell’ Ural, del Kuban…); vi era poi un nutrito gruppo caucasico e sparute minoranze georgiane, armene, turchestane e di altre origini ancora.

Il territorio dell’Alto Friuli e della Carnia venne diviso sostanzialmente a metà: la parte settentrionale (con sede di comando a Paluzza) ai caucasici e quella meridionale (con sede di comando a Tolmezzo) ai cosacchi; un contingente georgiano, assegnato di rinforzo, si insediò nel mese di febbraio nel paese di Coneglians. Vennero costituite anche la Riserva di Cavalleria Cosacca, composta da 3000 uomini, una Scuola di Guerra a Tolmezzo, e una Scuola di Cadetti a Villa Santina.

Nelle zone occupate dai caucasici, Paluzza diventò sede del Comando caucasico e del tribunale popolare, a Treppo si istituì un ospedale con un reparto di chirurgia, uno di medicina e uno di malattie infettive; a Cercivento venne istituito un ricovero per invalidi di guerra; Sutrio diventò sede di una scuola caucasica in Casa Del Moro, così come Paluzza.

Ligosullo ospitò un teatro, mentre a Sutrio venne istituita un’orchestra ed una scuola di ballo.

A Paluzza, inoltre, venne allestita una tipografia dove si stampava un giornale in caratteri cirillici, in uscita due volte alla settimana, che fungeva da organo di stampa dei nord caucasici stanziati nell’Alta Carnia (per i cosacchi, stanziati nei comuni più a sud, usciva il bisettimanale Terra cosacca).

Nella valle del Tagliamento, a Villa Santina, trovò sede la Scuola Allievi Ufficiali.

Le testimonianze sono generalmente concordi nell’indicare che dopo la prima fase caratterizzata da prepotenze, ruberie e occupazioni forzose fece seguito una successiva segnata da una maggiore attenzione e cura, orientata verso lo stabilizzarsi ed il consolidarsi della convinzione che la permanenza in Friuli per i cosacchi potesse durare a lungo e fosse quindi necessario apprestare strutture maggiormente stabili.

Dappertutto furono instaurate regole molto severe per quanto riguardava la circolazione delle persone: stabilite proibizioni precise nelle ore di coprifuoco, venne richiesto un lasciapassare per gli spostamenti fra i paesi e, soprattutto, dai paesi alle località di pascolo.

Alcune testimonianze riferiscono di una sorta di divisione organizzata dei terreni, con l’assegnazione di fondi individuali alle diverse famiglie. Profonda curiosità destarono naturalmente gli aspetti legati alla diversa religiosità, a partire dalle funzioni in chiesa, allo svolgimento dei funera li (spesso con la deposizione e l’offerta di viveri sulle sepolture) o nello svolgimento di processioni con abluzioni rituali nei laghi e nei corsi d’acqua.

Per lo svolgimento delle loro funzioni religiose, i cosacchi, in qualche caso, giunsero ad occupare le stesse chiese cattoliche; più frequentemente requisirono un capace edificio pubblico (soprattutto scuole) per adattarlo a luogo d’assemblea religiosa.

In numerosi paesi si venne a stabilire dunque una sorta di convivenza forzata che, in qualche caso, diede luogo anche a episodi di fraternizzazione tra occupanti ed occupati. Durante l’inverno le forze lavorative locali, bloccate le tradizionali attività, dovettero necessariamente aderire alle offerte di lavoro degli occupanti nazisti.

Va ricordato infine che il paese di Verzegnis si trovò ad ospitare la residenza del capo supremo delle forze cosacche, l’atamano Piotr Nikolaevic Krassnoff, giunto in Carnia assieme alla moglie Lidia Fedeorovna nel mese di febbraio 1945.

Il piccolo paese carnico diventò, in quei mesi, un punto di riferimento per la tutta la nobiltà cosacca, che arrivava al quartier generale per porgere un saluto all’atamano e alla consorte.

Krassnoff, sapeva assumere un contegno cavalleresco, compiacendosi di quelle visite ch’egli accoglieva con rigorosa etichetta poiché riteneva che fosse suo compito ridare auge al mondo aristocratico russo vissuto per troppo tempo in esilio.

Tragica fine dell’avventura cosacca
Da ottobre a dicembre i reparti cosacchi e caucasici liberarono le valli carniche dai partigiani e occuparono le vallate praticamente fino agli ultimi giorni di guerra. Nella tarda primavera del 1945 sotto la spinta dell’ offensiva angloamericana, i cosacchi sono costretti ad abbandonare questi territori ed a muovere verso nord, verso l’ Austria anche al fine di operare un congiungimento con le truppe russe anticomuniste del generale Vlasov.

La maggior parte dei cosacchi, dispersi lungo tutte le vallate carniche, iniziarono invece la ritirata verso la Carinzia: fra la fine di aprile ed i primi di maggio vennero organizzate delle lunghe colonne di fuggiaschi in direzione dell’Austria.

Il 3 Maggio le truppe arrivano in Austria; sostano vicino a Lienz. E’ Pasqua ed i cosacchi festeggiano. Gli ufficiali si rendono conto che la guerra è finita. Una delegazione composta da alcuni ufficiali contatta gli inglesi per trattare la resa. Inizialmente i cosacchi si fidano degli inglesi, 25 anni prima il generale Krasnov si era anche guadagnato la Military Cross combattendo contro i bolscevichi al fianco del generale Alexander, a sua volta Alexander si fregiava dell’ Ordine Imperiale Russo.

Era evidente che per queste persone era inconcepibile che i britannici potessero essere alleati dei sovietici. Gli inglesi intanto prendevano tempo perché non avevano in zona truppe sufficienti per minacciare e costringere con la forza le divisioni cosacche ad arrendersi.

Il generale Krasnov scrive una lettera al suo vecchio amico Alexander. Non riceve risposta alcuna. Con ogni probabilità la lettera non fu nemmeno recapitata. L’ unica condizione che i cosacchi esigevano è che fosse loro garantito che non sarebbero stati rimpatriati.

L’ ufficiale di collegamento con i cosacchi, il mite maggiore Davies, all’ inizio non capiva perché questi rifiutassero di arrendersi finché non avessero ricevuto l’ assicurazione richiesta. Poi un giorno una anziana donna non gli mostrò ambo le mani da cui tutte le unghie erano state strappate via, allora capì perché i cosacchi non volessero ritornare in Russia.

Ancora di più i cosacchi, acquartierati a Lienz, si preoccuparono quando i britannici confiscarono i loro cavalli. A seguito delle loro proteste i britannici risposero che non c’erano cavalli cosacchi in quanto i cosacchi erano prigionieri.

Era la prima volta che gli inglesi si riferivano a loro come a dei prigionieri. Il 27 maggio il maggiore Davies comunicò alle truppe cosacche che avrebbero dovuto consegnare tutte le armi per mezzogiorno. Quella mattina il generale britannico Musson aveva dato delle istruzioni alle truppe: “Mi rendo conto che abbiamo a che fare con persone che parlano una lingua diversa dalla nostra e che ci sono donne e bambini… se diventerà necessario far fuoco su di loro, voi lo farete e considerete questa come un’ operazione di guerra…”

Il giorno dopo ai cosacchi fu comunicato che gli ufficiali dovevano partecipare ad una “conferenza” per parlare del loro futuro, i cosacchi divennero sospettosi e alcuni non salirono sui camion che erano venuti a prelevarli.

Il corpo ufficiali presenti a Lienz era composto da 2756 persone, di questi, 2201 salirono sui camion inviati dai britannici, gli altri si rifiutarono. Quando arrivarono al luogo indicato non trovarono nessuna “conferenza” ma il generale britannico Musson che li informò che aveva ricevuto l’ ordine di consegnarli ai sovietici.

Durante il trasferimento, 55 ufficiali cosacchi si suicidarono, gli altri furono effettivamente consegnati all’ NKVD, la polizia segreta sovietica per la sicurezza dello stato. Questo il destino loro toccato: 12 generali furono spediti a Mosca, 120 ufficiali furono uccisi lungo la strada per Vienna dai soldati sovietici che sorvegliavano il convoglio, 1030 ufficiali morirono durante gli interrogatori condotti dall’ NKVD, 983 ufficiali “sopravvissero” per essere mandati a lavorare nelle miniere negli Urali dove furono privati del diritto a risalire in superficie.

Fra gli ufficiali troverà la morte anche il generale tedesco von Pannwitz, che volle condividere il destino dei suoi uomini e degli altri ufficiali superiori cosacchi, mentre gli sarebbe stato facile sfuggire tale sorte dichiarandosi tedesco e così restare con gli Alleati e godere del trattamento riservato dalla Convenzione di Ginevra ai prigionieri di guerra.

Rimanevano tuttavia circa 30.000 cosacchi, tra militari, famigliari e profughi che dovevano essere consegnati ai sovietici. Il Magg. Davies ebbe lo sgradevole incarico di informare i cosacchi quale sarebbe stata la loro sorte.

La maggioranza dei cosacchi avvertì il maggiore inglese che avrebbe preferito la morte al ritorno nell’URSS, dove sarebbero stati condannati ad una sicura morte. Il suicidio sarebbe apparso preferibile al ritorno in URSS, ma poi capì che i cosacchi non sarebbero mai volontariamente saliti a bordo degli autocarri e decise di usare la forza.

Fece innestare le baionette e all’avvicinarsi dei soldati, i cosacchi si strinsero ancor più l’uno all’altro formando un muro impenetrabile. I soldati inglesi, usando liberamente mazze, armi da fuoco e baionette, riuscirono ad aprirsi un varco, ma i cosacchi rinserravano ulteriormente le loro fila finché non essendoci più spazio alle loro spalle, per la presenza della palizzata, finirono per montare gli uni sugli altri schiacciando i compagni.

I soldati intanto catturarono i bambini, per indurre i genitori ad uscire dalla massa e colpivano e percuotevano senza alcuna remora, trascinandoli e caricandoli sanguinanti sugli autocarri.

La pressione della massa, aggredita dai soldati inglesi, finì per provocare l’abbattimento della recinzione. Molti fuggirono all’esterno e raggiunto un ponte sulla Drava si gettarono nel fiume in piena, per cercarvi la morte. Testimoni oculari ricordano alcune madri gettare i loro figli nelle acque della Drava, per poi lanciarsi anch’esse, preferendo la morte, pur di salvarli dalla prigionia nei gulag sovietici.

Olga Rotova, l’interprete al servizio degli inglesi, parla di non meno di 700, forse un numero troppo elevato. Il numero effettivo non si saprà mai.

Oggi a Peggets, c’è un piccolo cimitero: ci sono sepolte alcune delle vittime del 1 giugno 1945. Ogni anno, cosacchi, da tutte le parti del mondo vengono qui per pregare per le anime dei loro morti.

Il 1° giugno, circa 25000 persone furono consegnate ai sovietici dal campo dei cosacchi presso Linz, dove erano acquartierate circa 32000 persone, la maggior parte dei quali anziani, donne e bambini che erano di fatto dei rifugiati.

La stampa sovietica annunciò il processo e l’esecuzione degli ufficiali cosacchi il 17 gennaio 1947, anno che è assunto come quello della loro morte. La quasi totalità dell’Armata cosacca fu deportata nei gulag del Circolo polare artico, senza alcun processo e niente si sa della loro sorte.

Solo due anni dopo la morte di Stalin, il 17 Settembre 1955 un’ amnistia concessa dal nuovo capo del PCUS, Nikita Chruščёv , diede la libertà a tutti coloro che volontariamente o coattivamente avevano collaborato con i tedeschi. Ai russi, non cittadini sovietici, fu permesso di lasciare l’Urss.

Un’analoga storia di orrore e morte

Un analogo trattamento, effettuato in spregio alla convenzione di Ginevra ed al diritto internazionale e che non rispondeva nemmeno ad alcun accordo tra le potenze vincitrici, fu quello riservato agli anticomunisti slavi cioè croati, sloveni, serbi e montenegrini che furono consegnati a Tito.

Il conte Nikolai D. Tolstoy, inglese figlio di emigrati russi, qualche anno fa effettuò lunghe ed accurate ricerche per scoprire gli artefici di questo complotto. Tolstoy alla fine delle sue lunghe ricerche giunse alla conclusione che Harold Macmillan (che in seguito fu primo ministro inglese) aveva architettato l’intera vicenda. Fra il 17 e il 31 Maggio, circa 30-35 mila persone fra sloveni, croati, serbi e montenegrini vennero consegnati agli uomini di Tito. Finirono tutti infoibati.

Dopo la dissoluzione dell’Urss
La dispersione e la prigionia in Siberia non sono riuscite a cancellare il senso di identità e di appartenenza del popolo cosacco che si è mantenuto sino a poter riemergere in forma non più clandestina dopo il crollo dell’URSS.

Con la “perestroijka” di Gorbaciov c’è stata infatti una prima liberalizzazione, che ha consentito a diverse comunità cosacche di ricostituirsi in krug (circoli associativi), di riprendere l’elezione dei rispettivi atamani; qualche anno più tardi, con la presidenza Eltsin, i cosacchi sono stati pressoché completamente riabilitati e sono anche state loro restituite, in gran parte, le terre.

In Friuli oggi
Quanto al Friuli, il ricordo dell’occupazione rimane nella memoria degli anziani e si concretizza attraverso alcune sparute testimonianze materiali (icone, armi, oggetti di vita quotidiana) sopravvissute al tempo e ai danni del terremoto del 1976.

Se, sul piano umano, individuale, non sono stati rari gli episodi di amicizia avviati tra friulani e cosacchi, storicamente la conseguenza dell’invasione ha rappresentato un peso che solo faticosamente è stato superato. Una diffusa corrente storiografica, supportata da testimonianze orali e scritte riferite a quel periodo, tende ad accentuare, più che il peso dell’occupazione, una sorta di sentimento generalizzato di pietà, da parte della gente friulana, nei confronti delle popolazioni cosacche, viste come vittime più che oppressori.

Andando però alle radici di questo sentimento, possono essere condivise le parole dello storico Flavio Fabbroni, secondo il quale le motivazioni di quel senso di pietà popolare nei confronti dell’esperienza cosacca, lungi dal significare adesione ad una ideologia, rivela invece la profonda umanità, l’esaltazione del diritto della vita contro la morte e contro la guerra, che le masse popolari spesso sanno esprimere anche in condizioni eccezionalmente avverse, quali sono state, appunto, quelle dell’occupazione cosacca in Friuli.

(Ente Regionale Patrimonio Culturale del Friuli)

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