Si accelerano le riforme selezionando meglio la classe dirigente politica

Va dato atto al centrodestra di essere riuscito, con la separazione delle carriere dei magistrati, a compiere un passo determinante per quella riforma della Giustizia che la stragrande maggioranza degli italiani attendeva da almeno 30 anni.

Chiuso l’iter legislativo si terrà un referendum che suggellerà la volontà popolare. Il nostro Paese ha davvero la necessità di riforme per migliorare la qualità della vita dei cittadini. C’è una opprimente burocrazia degli apparati pubblici che va ridotta, così come va accelerata la chiusura di quella marea di enti inutili il cui costo, già nel 2019, era stato stimato in 13 miliardi di euro.

Il fatto che i senatori Roberto Calderoli e Mario Monti non siano riusciti nell’impresa non deve far desistere altri a riprovare.

Per far progredire l’Italia un punto nodale è il reclutamento della classe politica che dovrebbe essere selezionata con una rinnovata legge elettorale. Per esempio, se si introducessero i collegi uninominali le segreterie dei partiti sarebbero costrette a scegliere candidati autorevoli pena la perdita del seggio e quindi del loro potere.

Un’ulteriore garanzia per gli elettori sarebbe poi quella di una legge che imponesse la residenza – a coloro che intendono esercitare il diritto di elettorato passivo (i candidati) – di almeno 5 anni nel territorio di cui vogliono essere i rappresentanti.

In altri termini, se vuoi amministrare il Comune devi essere in esso residente da almeno cinque anni. Idem per la Provincia (i cui consiglieri dovrebbero tornare ad essere eletti) e la Regione. Analogo criterio deve valere per Camera e Senato: ci si candida nel collegio in cui si risiede da un lustro. Verrebbe così molto attenuata la consuetudine di presentare in collegi “sicuri” amici di partito e affini.

Di fatto va ridata ai cittadini la possibilità di proporre, in ogni singolo collegio, un candidato non espresso da un partito, con la semplice raccolta di 10.000 firme a suo sostegno.

Insomma introdurre la meritocrazia anche in politica è una necessità per far evolvere il Paese in senso davvero democratico (“demos kratos”, dal greco “governo del popolo”).

I comuni italiani sono 7.896 e solo il 31 per cento di essi ha più di 2.000 abitanti. Accorparli diventa una necessità. Ipotizzare amministrazioni locali con almeno 10.000 cittadini turberebbe l’ordine democratico? Annichilirebbe la rappresentanza?

Allo stesso modo ridurre il numero dei consiglieri comunali, provinciali, regionali violerebbe la Costituzione? Si mortifica la democrazia immaginare che un Comune al di sotto dei 30.000 abitanti sia governato da un consiglio composto da 13 membri (8 di maggioranza, di cui uno primo cittadino e 5 di minoranza)? Si accentua o si lede la rappresentanza di un territorio se, dopo due anni dei quattro in cui è stabilito che venga governato, i cittadini possono, attraverso un referendum, confermare o “licenziare” gli amministratori eletti? Introdurre una specie di “midterm” americano sarebbe così scandaloso?

Da qui il discorso si sposta fatalmente sull’imposizione fiscale e sulle tasse, che dovrebbero essere raccolte e gestite localmente per essere trasferite allo Stato in cambio dei servizi ricevuti.

Chi meglio di un sindaco sa come vivono e di che cosa hanno bisogno i propri cittadini?

Il nostro Stato costa perché troppe tesorerie sono autorizzate a gestire il denaro pubblico. Ecco perché occorrerebbe ridurre, per meglio controllarli, i soggetti abilitati a spendere le risorse raccolte.

Un tema molto complicato che ci riporta all’importanza della selezione della classe dirigente politica.

Urgono persone che, ispirate ai principi della dottrina sociale cristiana, accettino d’impegnarsi nella gestione della cosa pubblica.

didascalia: immagine creata con IA

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