Un paese senza famiglie non ha futuro

E’ costante nella storia d’Italia il rischio di essere governati da poteri esterni che cercano di imporre la propria organizzazione sociale, la propria cultura.

Si potrebbero cercare esempi illuminanti nel nostro passato remoto, in tempi recenti, invece, il tentativo più evidente di imporre agli italiani modalità di convivenza politica e di costumi alternativi alla propria cultura e tradizione è avvenuto negli anni novanta dello scorso secolo con il contemporaneo scatenarsi del fenomeno cosiddetto di tangentopoli e i tentativi, in parte riusciti, di modificare nel profondo il sistema democratico attraverso la riforma elettorale.

Il sistema elettorale proporzionale con le preferenze era considerato allora (e purtroppo in parte ancora oggi da troppi politici) come aperto alla corruzione e al voto di scambio. A trent’anni dalle leggi che l’hanno cancellato, possiamo costatare che nulla è cambiato sotto questo profilo, anzi la continua modifica di leggi elettorali ha ottenuto solo il risultato di allontanare dal voto masse sempre più grandi di elettori.

Se oggi siano smarriti o incerti di fronte alla campagna elettorale che ci attende molto dipende dall’aver voluto imporre un sistema di tipo bipolare che non appartiene a un paese da sempre ricco di diversità.

Paradossalmente potremmo dire che quello che oggi manca nel panorama politico è un partito come la Democrazia Cristiana e i suoi alleati di un tempo, laici e riformisti. Non sembri questa un’eresia, proviamo a immaginare qualche aspetto di quella tradizione che servirebbe oggi.

Innanzitutto una visione della politica come incrocio di valori e interessi, necessariamente parziali, e la necessità della mediazione e del confronto tra le diverse posizioni. Un metodo purtroppo smarrito in questa stagione di capi e capetti che esternano nei social e nei talk-show le proprie posizioni come verità incontrovertibili.

In secondo luogo una visione alta di politica estera. Confermare il percorso d’integrazione europea richiede la consapevolezza che un paese fondatore dell’UE non può andare al traino di altri, siano essi i cosiddetti paesi frugali (la cui frugalità è del resto tutta da dimostrare) piuttosto che gli autodefiniti “primi della classe” quali Francia o Germania: dirsi europeisti non basta per garantire un futuro a questa Europa oscillante tra gli interessi della grande finanza, una propria evidente miopia nella politica internazionale e una sempre maggiore subordinazione alle culture di moda. La storia europea dell’Italia richiede di giocare un ruolo di primo piano nell’evoluzione e nell’ampliamento dell’Unione Europea.

Per non parlare dell’Alleanza Atlantica, alleanza essenziale ma dentro la quale occorre stare con la schiena dritta e con la tutela dei propri interessi che non sempre coincidono con quelli delle potenze atlantiche: diversamente da loro noi abbiamo grande necessità di una politica mediterranea adeguata e rispettosa delle popolazioni che vi si affacciano. Forse i grandi comunicatori potrebbero spendere qualche goccia di inchiostro per raccontare ai neofiti della politica la crisi di Sigonella con gli USA e la politica mediterranea dei governi Craxi e Andreotti.

Penso che con personalità di quel calibro ben diversi sarebbero stati i rapporti con la Russia e probabilmente anche evitata l’invasione dell’Ucraina. E’ infatti continua l’attenzione sulle (vere o presunte) influenze russe sulla politica italiana mentre quelle dei paesi Nato vengono date come naturali anche se contrastano con gli interessi nazionali.

Se ci fosse oggi un partito d’ispirazione democristiana e popolare metterebbe in cima ai suoi programmi la crisi demografica che è molto più grave della stessa crisi ambientale. Senza scelte importanti a favore delle famiglie per favorire le nascite e la sostenibilità dei carichi familiari, il paese non ha futuro.

Non potrebbe mancare anche un’attenzione particolare al lavoro, favorendo la partecipazione di giovani e meno giovani ad attività dignitosamente retribuite piuttosto che a rendite assistenzialistiche che, come ben si è visto, favoriscono abusi e malversazioni.

Non sarà inutile ricordare che nei primi anni del dopoguerra, caratterizzati da una drammatica disoccupazione, la Repubblica, con il ministro del lavoro Fanfani, investì importanti risorse non per assistenza ma per costruire lavori, anche provvisori e precari, pur di togliere dall’inattività milioni di persone in attesa della ripresa dell’economia che non tardò ad arrivare. Per quei politici il primo articolo della costituzione della Repubblica “fondata sul lavoro” non poteva rimanere slogan elettorale.

Di questa cultura popolare non c’è traccia oggi nella politica italiana: tuttavia resta un auspicio. Nonostante i tentativi di modificarlo fatti negli anni, il sistema è rimasto parlamentare, vale a dire che un governo nasce se e quando c’è in parlamento una maggioranza assoluta degli eletti.

La speranza è che dagli insulti e dalle impuntature di oggi il nuovo ristretto e riformato parlamento sappia passare a un confronto reale di posizioni programmatiche utili non al consenso elettorale ma a favorire il bene degli italiani. Il Parlamento dovrebbe essere quel nocchiere di cui oggi ha bisogno l’Italia.

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