«I tedeschi amano gli italiani, ma non li stimano; gli italiani stimano i tedeschi, ma non li amano». Questa opinione è stata espressa da Michael Braun, corrispondente del quotidiano berlinese Die Tageszeitung e della radio pubblica tedesca, in una intervista al periodico “Internazionale”.
Purtroppo c’è del vero in questa lapidaria frase che, aldilà degli stereotipi (i tedeschi sono autoritari, gli italiani sono scansafatiche), dice quanto sia ancora lunga la meta di una comune coscienza europea.
Per altro i rapporti tra tedeschi e italiani sono forse i meno conflittuali se paragonati a quelli con i libici, i francesi o gli inglesi. L’acredine dei libici verso noi italiani può avere qualche fondamento, visto che li abbiamo colonizzati.
I francesi potrebbero avere qualche residuo risentimento per la dichiarazione di guerra nei loro confronti il 10 Giugno 1940, quattro giorni prima dell’ingresso della Wehrmacht a Parigi. Una pugnalata alle spalle per altro vendicata con lo scempio delle truppe coloniali francesi in Ciociaria e nel Senese.
Ancora oggi si definiscono genericamente “marocchinate” le violenze sessuali e le violenze fisiche di massa, ai danni di migliaia di individui di tutte le età (ma soprattutto di donne) effettuati dai goumier marocchini inquadrati nel Corpo di spedizione francese in Italia (Corps expéditionnaire français).
Più difficile giustificare la disistima che, celata nelle formali relazioni istituzionali, sotto sotto nutrono nei nostri confronti i fedeli sudditi della Casa reale britannica.
L’indole italiana, insomma, sarebbe quella ben incarnata dal guaglione umanamente simpatico, ma per nulla affidabile. La sua classe dirigente, non a caso, fin dall’unità del Paese nel 1861, sembra avere dato sostanza all’espressione «o Franza o Spagna, purché se magna», attribuita al fiorentino Francesco Guicciardini, che fu un fine diplomatico oltre che un grande conoscitore della storia.
Gli italiani che vogliono davvero bene al proprio Paese sembrerebbero pochi; come rari appaiono quelli che hanno superato i diversi preconcetti con i quali si dipingono i settentrionali, i meridionali o gli isolani.
Senza elencarli il lettore s’interroghi su quanti esponenti del mondo economico, politico e finanziario, negli ultimi trent’anni, hanno favorito interessi stranieri, a scapito di quelli italiani, pur di mantenere i propri privilegi.
In tale coacervo di tornaconti individuali e collettivi diventa molto difficile costruire l’unità degli europei.
Sono passati più di due secoli da quando Napoleone scese in Italia a portare “libertà, uguaglianza e fraternità”, accolto a braccia aperte dalla nobiltà terriera dell’epoca. I rozzi contadini, gente del popolo poco istruita, sostenuti dal basso clero, vi si opposero dando vita a quel capitolo che gli storici hanno chiamato “insorgenze”, vale a dire 100.000 (centomila) fucilati i cui nomi figurano in tanti registri parrocchiali.
I ricchi, che fossero francesi, italiani, spagnoli o austriaci hanno sempre saldato i propri interessi; il popolo, al contrario, o si sottometteva con le buone riverendo i nuovi padroni, o veniva costretto all’obbedienza con le maniere forti.
Prima i popoli occidentali prendono atto che le attuali élite europee e statunitensi non sono all’altezza del loro ruolo, prima il mondo si quieta. Valga un solo tema: la guerra in Ucraina.
Un evento evitabilissimo. Un tremendo sospetto aleggia su Biden; un sospetto che solo per dovere di cronaca riferiamo e che stentiamo a condividere. Il 31 Agosto 2021 il Presidente americano decide di lasciare l’Afganistan e la sua popolarità nell’opinione pubblica, soprattutto statunitense, crolla.
Accelera quindi la crisi in atto fin dal 2014 tra Ucraina e Russia e spinge Putin all’invasione. È la guerra, un toccasana per staccare Mosca dall’Unione europea, salvaguardare il dollaro e tentare di riacquistare consenso all’interno del proprio Paese.