Lo statalismo nemico delle culture popolari

Nell’esperienza educativa di Gioventù Studentesca il canto ha fin dalle origini un ruolo particolare: per questo, mentre ancora non c’erano canzoni nate all’interno del movimento, don Giussani attingeva a quanto era disponibile e utilizzabile per documentare la bellezza e il senso del cammino, tra gli altri anche canti popolari.

Uno di questi, abruzzese, esalta la bellezza dei grandi complessi montani, il Gran Sasso e la Maiella. “Son salito alla Maiella, la montagna tutta in fiore…” recitava una delle strofe.

Così era nato in noi giessini l’interesse per questa montagna allora sconosciuta. Nello scorso mese di agosto abbiamo così deciso, mia moglie ed io, di salire alla Maiella dei nostri canti giovanili.

Nonostante il brutto tempo che ci ha impedito di godere del panorama, abbiamo potuto raggiungere il Blockhaus, lungo il sentiero voluto da Indro Montanelli, suggestivo anche se solo qualche sguardo di azzurro fendeva la foschia negandoci il paesaggio.

Le condizioni del tempo non ci hanno però consentito di giungere alla “Tavola dei Briganti, un luogo lastricato di rocce sulle quali pastori e briganti hanno lasciato incisi nomi e pensieri. Tra le scritte, una induce a qualche riflessione :“Leggete la mia memoria per i cari lettori. Nel 1820 nacque Vittorio Emanuele Re d’Italia. Prima il 60 era il regno dei fiori, ora è il regno della miseria”.

Nella zona si ritiene si radunassero i cosiddetti briganti per provare a resistere al processo di unificazione dell’Italia ormai entrato nella sua fase conclusiva con il successo della spedizione garibaldina dei Mille. Questi eventi ottocenteschi sono identificati da sempre come il Risorgimento nazionale. Ma era veramente morta la nazione Italiana per avere bisogno di risorgere?

Sull’argomento è intervenuto in diverse occasioni il compianto cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna formatosi nella cultura ambrosiana del seminario di Venegono, discepolo fedele e creativo del cardinale Giovanni Colombo.

Alcune riflessioni organiche sul Risorgimento le troviamo nel suo “L’unità d’Italia – contributo di un italiano cardinale a una rievocazione multiforme e problematica”, pubblicato da Cantagalli in occasione del Centocinquantesimo anniversario dell’Unità.

Biffi non è affatto un nostalgico dell’Italia preunitaria, riconosce i lati positivi dell’evento storico: “Il primo è di aver definitivamente liberato l’Italia da ogni dominazione straniera”, “il secondo è di aver radunato tutti gli italiani nella realtà politica di un solo stato”; “Il terzo guadagno rallegra in modo speciale i veri credenti ed è la scomparsa del potere temporale pontificio che nessun cattolico si sogna più di rimpiangere”.

Detto questo ecco un giudizio, sul Risorgimento, che merita attenzione: “Nella sua denominazione, oltre che nella storiografia più diffusa e conseguentemente nella retorica divulgata, si tende a lasciar credere che si sia trattato di una rinascita totalizzante: un passaggio degli italiani dalle tenebre alla luce, se non proprio dalla morte alla vita. Prima del 1860 – si ama supporre – tutto è degenerazione e squallore, dopo il 1860 tutto riprende a fiorire.”

Questo 1860 richiama quel 60 presente nell’iscrizione della Maiella. L’anonimo incisore ha colto icasticamente che la conquista da parte del Piemonte della sua terra natale ha sostituito il regno della miseria al regno dei fiori.

Nel suo libretto Biffi argomenta contro una lettura unilaterale della storia d’Itala: la mancanza di uno stato unitario non significa che non esistesse la nazione italiana, divisa sì tra staterelli ma unificata dalla lingua affinata da Dante fino a Manzoni, e dalla cultura, se è vero che pittori, scultori, musicisti formatisi in Italia eccellevano da secoli e fino all’Ottocento nelle corti europee con una ricca presenza mai più ripetuta.

Ancora Biffi ci guida in una lettura controcorrente. I principi che guidarono il Risorgimento entrano in Italia “negli zaini” dei soldati del generale Bonaparte, braccio armato del Direttorio frutto della Rivoluzione francese: “un esercito di ladri” lo chiama Biffi, visto che mai prima di allora eserciti invasori avevano saccheggiato in cosi vasta e pianificata misura i beni culturali degli italiani. In quegli zaini portavano anche una novità figlia della Rivoluzione francese, una concezione centralista dello stato e un totale disprezzo per il sentimento religioso cristiano del popolo, valori peraltro rapidamente assunti dalla maggior parte delle élite risorgimentali.

Difficile stupirsi quindi se l’unificazione politica, così come la prima calata dei francesi, sia stata vissuta dai popoli interessati come un sopruso. I briganti della Maiella non sono banditi da strada ma persone colpite nei beni e nei valori in cui erano stati educati e vivevano.

Quello Stato che veniva a imporsi sule loro terre non mostrava rispetto per la cultura millenaria che quelle terre aveva bonificato, coltivato e arricchito di bellezze artistiche: salendo alla Maiella ci si fermi alle abbazie di San Liberatore o di San Clemente a Casauria per goderne la bellezza: solo un Dio che si fa uomo e si coinvolge nelle vicende umane poteva ispirare opere di questa bellezza e coinvolgere persone di ogni ceto per realizzarle, non certo un Essere Supremo inventato dagli intellettuali illuministi.
“Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani”, è uno slogan che abbiamo imparato fin dalle elementari (noi più vecchi) ma è uno slogan falso. Si sarebbe dovuto dire: fatta l’unità dello stato troviamo le modalità perché questo Stato venga riconosciuto dalle diverse popolazioni che lo compongono.

Ha predominato invece lo statalismo che è giunto fino ad oggi e che divide il Paese tra chi ha il potere di influenzare la cultura di massa in particolare con il controllo dell’informazione, e un popolo sempre più disorientato dal venir meno dei suoi riferimenti storici.

Il Risorgimento ha introdotto e diffuso una cultura statalista di stampo illuministico che è stata solo parzialmente arginata in sede costituzionale dalla convergenza di due grandi forze popolari quali erano a quel tempo la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano.

Tale argine è ormai crollato con la fine dei due partiti popolari. Può perciò essere utile, seguendo Biffi, tornare a un insegnamento del card. Colombo: «Credo infatti che oggi battaglie degli anni Settanta del secolo scorso trovino una nuova attualità: per una vera laicità dello Stato fondata sulla libertà della fede; per la piena libertà della comunità cristiana; per un recupero del valore di una tradizione». Il cattolicesimo, scrive Biffi, «resta la religione storica della nazione, e come tale ha largamente contribuito a dare un’anima e un volto propri e singolari alla nostra ammirevole civiltà; quella civiltà che ha reso famoso e onorato il nome dell’Italia nel mondo. A qualcuno presumibilmente questo non garba; ha tutta la nostra comprensione, ma non possiamo farci niente: ciò che è avvenuto non si può mutare o rinnegare a piacimento».

Con fine ironia Biffi indica una traccia di lavoro.

(Il cardinale Giacomo Biffi (1928 – 2015), arguto studioso e insigne teologo (credit foto: “Avvenire”)

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