La miglior gioventù: i ragazzi con le stellette non quelli dei centri sociali

A Torino i giovani di un centro sociale manifestano violentemente, mettono a soqquadro intere vie, occupano la Mole Antonelliana, devastano un fast food e mandano all’ospedale una ventina di agenti di polizia intossicati da un gas urticante.

A Bologna collettivi studenteschi e attivisti di centri sociali, nel tentativo di impedire un corteo di militanti della Rete dei Patrioti e di Casapound, si scontrano con le Forze dell’ordine interposte per evitare il contatto tra gli opposti gruppi: tre agenti di polizia feriti.

A Milano, quartieri e luoghi come San Siro, Niguarda, viale Padova, corso Como, viale Jenner, un tempo appetiti per i servizi offerti e la tranquillità sociale, hanno raggiunto un preoccupante degrado urbano e un tasso d’insicurezza elevatissimo, generato dalla presenza di spostati, accattoni, bande criminali, immigrati irregolari.

Pochi giorni fa, anche il quartiere Corvetto è assurto agli onori della cronaca per essere stato messo a ferro e fuoco.

A causare i disordini nella polveriera Corvetto, definito dal quotidiano “Avvenire” «uno dei quartieri di Milano a più alto tasso di criminalità e spaccio», è stata la rabbia di immigrati, prevalentemente magrebini, per la morte di un giovane egiziano caduto dalla moto su cui viaggiava mentre era inseguito dai carabinieri.

Alla guida del veicolo c’era un altro giovane che, sprovvisto di patente, non s’è fermato all’alt dei militari. Nel corso dei disordini, devastato l’arredo urbano in diverse vie e dato alle fiamme un autobus, dopo avere obbligato i passeggeri ad abbandonarlo.

Sono anni che, soprattutto le grandi città, patiscono i guai di un’immigrazione incontrollata e di un’inefficace politica d’integrazione. È dal 1968, purtroppo, che gruppuscoli di studenti universitari e militanti dei centri sociali si alimentano di quella cultura antagonista e anarcoide mai sconfessata con energia dalle sinistre.

C’è un becero pregiudizio condiviso da troppi giovani i quali disprezzano, quando non deridono, i loro coetanei che, con onore e sacrificio, scelgono di far parte delle Forze dell’ordine. Mentre vie e piazze italiane sono saccheggiate da rabbiosi violenti, 11.166 donne e uomini con le stellette, a rischio dell’incolumità personale, sono impegnati all’estero per garantire sicurezza e prestigio al nostro Paese.

L’Italia, nel 2024, ha preso parte a più di 40 missioni per conservare la pace, stabilizzare luoghi, formare e addestrare forze locali, risultando primo contributore per le operazioni dell’Ue, secondo Paese, dopo gli Usa, per numero di militari impegnati in azioni Nato e primo tra le nazioni occidentali nelle missioni delle Nazioni Unite.

Sono questi connazionali in divisa che, insieme ai loro colleghi attivi nelle nostre strade, costituiscono la migliore gioventù. È quindi arrivato il momento di tornare a riaffermare il buon senso e di cambiare narrazione: il futuro della classe dirigente italiana non esce dai centri sociali, ma dalle università in cui si studia con profitto e dalle accademie militari.

Se ne faccia una ragione la sinistra e si converta per il bene del nostro Paese, la cui stima internazionale cresce anche grazie ai nostri militari e non per quegli sconclusionati maestri della protesta che, imbevuti d’inconcludenti ideologie, sono solo capaci di vandalismi e distruzioni.

Quanto alla devastante incontrollata immigrazione che sta provocando seri guai non solo in Italia, ma in tutto l’Occidente, non possiamo dimenticare le parole del cardinale Giacomo Biffi (1928-2015) che, nella Nota pastorale “La città di San Petronio nel terzo millennio”, osservava come «i criteri per ammettere gli immigrati non possono essere solamente economici e previdenziali (che pure hanno il loro peso)».

Il saggio e sapiente Porporato, per 19 anni arcivescovo di Bologna, spiegava poi con chiarezza: «Occorre che ci si preoccupi seriamente di salvare l’identità propria della nazione. L’Italia non è una landa deserta o semidisabitata, senza storia, senza tradizioni vive e vitali, senza un’inconfondibile fisionomia culturale e spirituale, da popolare indiscriminatamente, come se non ci fosse un patrimonio tipico di umanesimo e di civiltà che non deve andare perduto.

In vista di una pacifica e fruttuosa convivenza, se non di una possibile e auspicabile integrazione, le condizioni di partenza dei nuovi arrivati non sono ugualmente propizie. E le autorità civili non dovrebbero trascurare questo dato della questione.

In ogni caso, occorre che chi intende risiedere stabilmente da noi sia facilitato e concretamente sollecitato a conoscere al meglio le tradizioni e l’identità della peculiare umanità della quale egli chiede di far parte.

Sotto questo profilo, il caso dei musulmani va trattato con una particolare attenzione. Essi hanno una forma di alimentazione diversa (e fin qui poco male), un diverso giorno festivo, un diritto di famiglia incompatibile col nostro, una concezione della donna lontanissima dalla nostra (fino ad ammettere e praticare la poligamia). Soprattutto hanno una visione rigorosamente integralista della vita pubblica, sicché la perfetta immedesimazione tra religione e politica fa parte della loro fede indubitabile e irrinunciabile, anche se di solito a proclamarla e farla valere aspettano prudentemente di essere diventati preponderanti.
Mentre spetta a noi evangelizzare, qui è lo Stato – ogni moderno Stato occidentale – a dover far bene i suoi conti».

La Nota, datata Settembre 2000, non è stata presa in considerazione e oggi, a distanza di 24 anni, siamo qui a discutere d’integrazione. Mala tempora currunt (viviamo tempi difficili).

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