Caro bollette, la ragione geopolitica è alle porte dell’Europa

Generale Giuseppe Morabito – Membro del Direttorio della NATO Defence College Foundation. I prezzi dell’energia in Europa sono già alle stelle e c’è da aspettarsi che crescano ancora nei prossimi mesi.

Per il petrolio greggio, qualsiasi crisi geopolitica farà salire il prezzo e le mosse politico-militari, potrebbero aprire scenari in cui i 100 dollari al barile saranno addirittura visti come prezzi bassi (su questo punto la discussione è comunque ancora aperta perché’, al momento, il prezzo rimane costante). Gli analisti hanno la certezza storica che i mercati globali delle materie prime (petrolio, gas o dell’energia in genere) sono legati alla geopolitica e alla stabilità nei rapporti internazionali e il “caro bollette” ha radici non tanto lontane da Roma.

Se si vuole rimanere vicino all’Europa o meglio ad aree di crisi dove l’Europa ha “voce in capitolo” e c’è una chiara implicazione con l’energia, si deve parlare della crisi ai confini dell’Ucraina, del nucleare iraniano, del fallimento dell’economia in Turchia, delle mancate elezioni in Libia e della stabilità interna in Algeria.

Infatti, negli ultimi mesi, senza alcun importante conflitto reale, quasi tutte le parti coinvolte nel mercato energetico sono state in grado di mantenere in atto una strategia di produzione ed esportazione che, non solo ha rimosso l’immensa sovrabbondanza di petrolio degli anni prima del 2020, ma è stata artefice della stabilizzazione dei prezzi del petrolio in generale.

Dopo un periodo di relativa stabilità durante la fase acuta della pandemia ora le crisi regionali “preoccupano” il mercato soprattutto in merito al libero flusso dei rifornimenti sia terrestri (oleodotti e gasdotti) sia via mare (grandi navi per il trasporto di petrolio e gas).

Considerando la concentrazione di forze armate ai confini russi con l’Ucraina e lo stato non roseo dell’economia russa si profilerebbe una potenziale crisi militare regionale. Se gli Stati Uniti, l’UE o la NATO non si muovono dalla loro attuale strategia di attesa e, mentre protestano diplomaticamente, il sogno del Presidente Putin di recuperare il cuore dell’ex impero russo si potrebbe avvicinare anche vedendo tale strategia come mezzo di coesione interna “anti crisi economica”.

Senza alcun dubbio, l’attuale strategia di Putin è a un livello superiore di quello che sta mettendo in atto sia la NATO sia la UE.

Per la strategia russa, tutti i fattori militari ed economici regionali sono tali che nessuna linea rossa occidentale sembrerebbe al momento in grado di fermare una mossa russa, se davvero lo si volesse.

La supremazia di Putin per quanto riguarda le materie prime, in particolare il gas naturale e il petrolio greggio in Europa, ha spinto i governi europei, attesa la crisi delle materie prime energetiche, a lasciare a Putin le prossime mosse a inizio del 2022. “Questo non è buono!”

Se l’economia russa si regge sulla vendita all’estero d’idrocarburi (soprattutto via oleodotti e gasdotti) è anche vero che se il costo dell’energia aumenta l’economia UE entra in crisi e tale situazione, combinata con la pandemia causata dalle “distrazioni” nei laboratori dalla Cina Popolare, apre scenari molto negativi.

Se l’offerta di gas verso l’Europa è scarsa, lo è soprattutto perché la Russia non ha aumentato le forniture verso il continente, limitandosi a rispettare quanto definito dai contratti precedenti e ma senza prevedere esportazione aggiuntiva: una scelta strategica e a prima analisi poco comprensibile, visti i prezzi altissimi del gas forniti all’hub dei consumatori europei.

La “sbandierata” attività di supporto USA fatta inviando trenta navi gasiere verso l’Europa potrebbe essere solo un palliativo e dimostrarsi una goccia nel mare (drop in the ocean, in inglese) dell’emergenza del Vecchio Continente.

L’azione americana non cambierebbe la strategia di Mosca che rientrerebbe in un’azione di pressione che punta a raggiungere i suoi due obiettivi che sono sia l’entrata in funzione del gasdotto Nord Stream 2 sia convincere l’Europa a sottoscrivere più contratti di lungo termine invece che a breve o stagionali.

In merito al gasdotto Nord Stream 2, lo stesso è utile alla Russia sia per aumentare la sua presenza sul mercato energetico europeo (è già il principale fornitore di gas, con una quota di più del 40%) sia per mettere sotto pressione economica, per mancanza di dazi di transito, l’Ucraina (perché’ il nuovo gasdotto va direttamente, favorendola nei costi di acquisto, in Germania, perché passa sotto il Mar Baltico senza attraversare altri paesi cui pagare dazi di transito).

I verdi nel governo di Berlino si oppongono sia a Nord Stream 2 sia al nucleare tedesco, questo potrebbe essere la causa del diminuire la “capacità di concorrenza industriale’ della Germania, ma è ancora presto per sapere se gli ecologisti reggeranno alle conseguenze delle loro azioni.

L’insistenza sui contratti a lungo termine, invece, si trova nel fatto che Mosca vuole garantirsi una fonte di reddito sicura in futuro, atteso che la transizione ecologica (su cui l’UE ha puntato) potrebbe ridurre il consumo di fonti fossili in favore di quelle rinnovabili.

A Vienna le discussioni in corso per il controllo del nucleare iraniano, tra Germania, Francia, Russia, Cina, Regno Unito e Iran, con gli Stati Uniti ancora in disparte, si stanno dirigendo verso la grande resa dei conti delle prossime settimane.

Qualsiasi altra cosa che non sia un importante passo avanti per un accordo porterà a un aumento del livello di tensione regionale e globale, poiché il programma nucleare iraniano in corso non è lontano, o addirittura è già, a un punto di non ritorno.

Le dichiarazioni provenienti da Teheran fanno intuire che l’opzione dell’arma nucleare è già possibile.

Attese le maggiori capacità del sistema missilistico balistico dell’Iran, qualsiasi interruzione dei colloqui, che  non dipendono solo dalla volontà politica degli europei, porterà a un confronto diretto dell’Iran con gli Stati Uniti, Israele e molto probabilmente una lunga lista di stati arabi.

Sono già segnalati colloqui a livello militare tra Israele, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e altri.

Una rottura dei colloqui di Vienna potrebbe portare entro un breve periodo di tempo a un’operazione militare israeliana su vasta scala per neutralizzare, o quantomeno ridurre notevolmente, le capacità nucleari dell’Iran.

L’esito o la ricaduta di tale azione non è ancora chiaro ma c’è da aspettarsi una potenziale risposta iraniana nell’area del Golfo Arabico (area della maggiore produzione mondiale di greggio e gas) o Mar Rosso.

Mari “chiusi”  il cui blocco sarebbe una catastrofe economica. Allo stesso tempo, i gruppi terroristici collegati a Teheran, come Hezbollah, Hamas e Houthi, potrebbero realisticamente organizzare attività terroristico/militari contro Israele e suoi alleati anche colpendo i gasdotti o gli oleodotti.

Ad esempio, il blocco di pochi giorni del Canale di Suez per una porta container incagliata dovrebbe fare da monito su quanto potrebbero creare dei colpi di mano su naviglio in transito i  ben organizzati gruppi di terroristi appena citati.

Più vicino all’Europa e sul Mediterraneo la crisi finanziaria in corso in Turchia, che ha provocato un’enorme svalutazione della lira turca e il conseguente grave problema d’inflazione, sta minando non solo la contingenza economica del paese, ma rappresenta anche una possibile minaccia per la stabilità della “dittatura” politico/militare.

Il presidente turco Erdogan sta vivendo un momento in cui i fattori finanziari ed economici stanno minando il sostegno al loro futuro politico.

Allo stesso tempo, i principali investitori esteri  stanno lasciando la cadente economia di Ankara. Negli ultimi mesi sono stati fatti tentativi per trovare nuove sovvenzioni principalmente da Qatar, Emirati Arabi Uniti e Cina, ma queste non saranno in grado di arginare un ulteriore deterioramento dei bilanci del governo.

Si ipotizza che la linea intrapresa da Erdogan, in parte basata su una percepita interpretazione islamica dei fattori finanziari ed economici, porti presto a un possibile tracollo generale. L’instabilità interna e le pressioni economiche potrebbero portare a una possibile strategia in cui le “avventure” militari regionali (quali quelle in Siria, Libia e Nagorno Karabakh)  potrebbero essere utilizzate per ottenere sostegno interno.

Senza altre opzioni rimaste, Erdogan potrebbe trovarsi di fronte a una possibile crisi politica che, si potrebbe sperare, sia abbastanza forte da rimuoverlo dal potere e veder ritornare la democrazia e la liberta di espressione in Turchia.

Una crisi su vasta scala in un paese ancora membro della NATO, vicino all’UE, è una minaccia non solo per la sicurezza regionale ma anche per il commercio marittimo, poiché alcune principali rotte commerciali passano in aree dove Ankara non rinuncia alla sua negativa, influenza o addirittura attraversano la Turchia come nel caso nella rete di gasdotti provenienti dal Mar Caspio. Cosa farà Erdogan se si dovesse trovare “alla canna del gas” non si puo’ immaginare.

Sempre nel Mediterraneo, ma alle porte dell’Italia e precisamente in Libia, dalla rimozione dell’ex leader Muammar Ghadaffy, l’area è stata coinvolta in una lunga guerra civile.

Negli ultimi mesi, i leader e i partiti politici libici hanno fallito nel tentativo (supportato dalla comunità internazionale, delle Nazioni Unite e in primo piano da Italia, Francia, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Russia) di organizzare nuove elezioni per eleggere un presidente e un nuovo parlamento.

Nelle ultime settimane, a fallimento confermato, il paese sta tornando di nuovo a livelli elevati d’instabilità, poiché le elezioni sono state rinviate e i detentori di potere locale sono tornati e stanno rinforzando le loro roccaforti. Un potenziale nuovo scenario di guerra civile è prevedibile  poiché anche le potenze esterne non sono ancora disposte a rinunciare alle proprie occupazioni/presenze militari nel martoriato paese.  

In particolare, Turchia, Egitto, Russia e altri stanno ancora contendendo per imporre la propria versione della nuova Libia e un rinnovato scontro militare è una possibilità reale da non scartare. Una guerra totale porterebbe a una riduzione o addirittura a un blocco delle forniture energetiche dal paese con un danno enorme per l’Italia in primis.

Non dimentichiamo, comunque, anche la vicina Algeria, fonte di gas essenziale per l’Italia essendo il secondo nostro fornitore. Il Presidente della Repubblica Mattarella ha effettuato proprio in Algeria  l’ultima visita all’estero del suo settennato ed è stata la prima visita di un Capo di Stato europeo al presidente Tennoune che dal 2019 è stato l’artefice  di un nuovo periodo politico algerino che ha posto fine a una lunga fase di instabilità e transizione.

Senza alcun conflitto reale (c’è chi pensa addirittura a un “effetto benefico” della pandemia) tutte le parti coinvolte sono state in grado di mantenere in atto una strategia costante di produzione ed esportazione e, non solo, pare scomparsa l’immensa sovrabbondanza di petrolio degli anni prima del 2020, che è stata anche alla base della stabilizzazione dei prezzi del petrolio.

Alle citate crisi locali e una minore incidenza pandemica che prefigura un rilancio delle produzioni e consumi va aggiunta, poi, la crescita dei prezzi dei permessi di emissione di CO2 all’interno del sistema europeo.

È aumentato anche il prezzo del carbonio, ossia le quote che le aziende europee si scambiano per “compensare” le emissioni generate dalla combustione di fonti fossili (da gennaio a dicembre del 2021 è più che raddoppiato e incide moltissimo sulle “bollette”).

La “malefica per le tasche di tutti” combinazione dei due fattori, cioè il costo maggiore della materia prima e dei permessi di emissione si è riflesso sul prezzo dell’energia elettrica all’ingrosso e ci vedrà pagare “salate” le bollette di “luce e gas” a partire da subito.

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