Caino e Abele nei nostri tempi

La liturgia ambrosiana della Quaresima ci offre quotidianamente la lettura del libro della Genesi. Sono pagine ben note: la creazione, Adamo ed Eva, Caino e Abele… Rappresentano l’inizio di un cammino che vuole preparare il credente a vivere la centralità del mistero cristiano, la morte e la resurrezione di Gesù, ma sono parole che costituiscono un criterio di giudizio anche verso le contraddizioni e le tragedie del nostro tempo.

Fin dall’origine, infatti, l’uomo si trova davanti al dramma della sua libertà: la scelta tra il bene e il male, scelta che dai progenitori attraversa nei secoli la storia degli uomini e delle nazioni.

Per stare di fronte alla tragedia della guerra senza affondare nel gorgo dei commenti più o meno competenti, comunque fatti nel comodo della nostra lontananza dai combattimenti, non trovo di meglio che appoggiarmi alla liturgia quaresimale.

“Avete inteso che fu detto agli antichi “non ucciderai”, chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. Ma vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio (dal vangelo di giovedì)” .

Il mistero del male appare, in questa guerra, ancora più profondo e provocatorio perché da una parte e dall’altra ci sono popoli che hanno ricevuto lo stesso battesimo cristiano, popoli fratelli, Caino e Abele appunto.

E’ un dramma che costringe a riflettere sul destino del cristianesimo in Europa. Aveva forse ragione Charles Péguy quando, più di un secolo fa, poteva parlare di “…un mondo prospero, senza Gesù, tutta una società prospera, senza Gesù, tutta una società, e una società prospera, senza Gesù; un mondo, una società prosperi, incristiani dopo Gesù “?

Una società prospera, l’Europa nella quale viviamo, e che di questa prosperità ha fatto una ragione di vita esclusiva strutturando su di essa (i mercati, la finanza, le transazioni) le proprie istituzioni di governo fino a smarrire il senso della propria storia e a cancellare la propria identità più vera (dopo Gesù).

E’ proprio la storia che dovrebbe ricordarci che la guerra, ogni guerra anche la più giusta (sempre che ci possano essere guerre giuste) non distrugge solo edifici né uccide solo uomini donne e bambini, e già questo è un costo inaccettabile: la guerra semina nei cuori degli uomini il sentimento dell’ odio, il rancore che aspetta la rivincita e la prepara, il disprezzo dell’altro, diventato nemico.

Per impedire le guerre così come per superare i problemi dei dopoguerra occorrono uomini lungimiranti, capaci di avere speranza di futuro. L’Europa ne ha conosciuto di questi uomini, lo abbiamo spesso ricordato: quando allo stesso tavolo, solo pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, sedevano i rappresentati di Francia e Germania, due paesi divisi da sempre e spesso contrapposti in guerre crudeli, come le due mondiali, è a partire da quei tavoli di riconciliazione che si è cominciato a ripensare l’Europa come comunità di popoli e paesi.

Niente di simile, purtroppo, nell’Europa di oggi: una generazione di politici deboli, preoccupati del consenso piuttosto che delle prospettive di futuro non è stata capace di cogliere la complessità dei problemi generati dalla caduta del sistema di potere sovietico e di affrontarli con prudenza e lungimiranza. Occorre che tornino di attualità due parole un po’ desuete, soprattutto nella pratica politica: riconciliazione e perdono.

Una terra europea che deve al cristianesimo le forme stesse della sua convivenza civile e che per i popoli slavi ha creato un alfabeto apposito per avvicinarli al vangelo, saprà ritrovare nella verità della sua storia la forza di riconciliare ciò che oggi appare drammaticamente diviso?

Lo chiede la fede cristiana, lo desiderano le popolazioni colpite messe in fuga dalla guerra come pure quelle che alla guerra si oppongono pagando il prezzo del dissenso; lo chiede il mondo della cultura che ha un immenso debito con la letteratura russa e che vede alcuni dei suoi grandi come Gogol’, Babel’, Grossman, Bulgakov, Puškin e Čechov essere nati in Ucraina.

Quando le soluzioni sembrano impossibili la preghiera cui il papa ha richiamato non solo i cristiani ma ogni uomo desideroso di pace, resta l’arma più potente nelle mani di chi crede che fin dal giardino dell’Eden il Signore ha apparecchiato per l’uomo un destino di felicità, un destino buono continuamente insidiato da un uso sbagliato della libertà. Preghiera per chiedere di non essere presi nella spirale dell’odio per l’altro e perché possano sorgere uomini di governo nuovamente capaci di costruire pace nella giustizia.

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