Trieste un dopoguerra lungo e «diverso»

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di Paolo Sardos Albertini  E’ il 25 aprile ’45 la data che, per il resto d’Italia, segna la liberazione dai nazifascisti e la fine della seconda guerra mondiale. Non così per Trieste: per il capoluogo giuliano quei dati passano infatti inavvertita.

L’insurrezione del CLN scatta solo il 30 aprile, quando gli uomini del Corpo Volontari della Libertà prendono il controllo della città, togliendolo ai Tedeschi. Questa insurrezione ha un duplice antefatto.

Innanzitutto la composizione del CLN: nel resto d’Italia l’organo che raccoglie le forze politiche che conducono la lotta di liberazione comprende sei partiti (Dc, Pci, Psi, Pli, Pri, Partito d’Azione), a Trieste i componenti sono solo cinque.

Mancano infatti i Comunisti che – a seguito dell’accordo di Bari del 15 ottobre ’44 tra Togliatti ei due rappresentanti di Tito (Kardelj e Gilas) – sono passati alle dipendenze jugoslave. In quell’incontro infatti il ​​leader dei comunisti italiani è andato integralmente le richieste dei compagni jugoslavi e cioè: aveva tutta la Venezia Giulia sarà destinato, a guerra finita, alla

Jugoslavia e, già da subito, i militanti ed i partigiani comunisti di quest’area dovere tutti passare alle dipendenze del partito di Tito.

Una scelta che incontrò un qualche dissenso tra i comunisti triestini. «Curiosamente» i dissidenti – a seguito di delazioni – finirono nelle mani della Gestapo. Vittori Vidali, il leader storico del comunismo giuliano, farà più tardi dei nomi: Frausin, Colarich, Gigante, tutti vittime delle spiate titoiste alla Gestapo tedesca.

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Ma ritorniamo all’aprile del ’45.
La seconda anomalia triestina: il CLN (ormai composto da solo cinque partiti), nella persona di Ercole Miani, rappresentante del più antifascista dei partiti, il Partito d’Azione, prende contatto con il Podestà di Trieste, il fascista Cesare Pagnini, è si accorda con lui affinchè gli uomini del Podestà, i militi della Guardia Civica, confluiscano nel Corpo Volontari della

Libertà, gli uomini del CLN, portando armi e rifornimenti, ed insieme si dia vita all’insurrezione contro i Tedeschi.
La finalità è duplice: liberare Trieste dalla presenza dei Tedeschi (evitando che facciano saltare il porto) e controllare la città prima che arrivino gli uomini di Tito e che Trieste rischi di finire jugoslava.

Tito infatti si era impegnato per arrivare per primo al controllo della città di San Giusto (gli storici parleranno della «corsa per Trieste» ) puntando a prenderne possesso prima ancora di aver occupato Lubiana. Si trattava di dare applicazione al principio enunciato da Stalin «chiunque occupi un territorio impone anche il suo sistema sociale». Tito «liberatore di Trieste» avrebbe significato porre le premesse per una Trieste comunista e jugoslava.

E’ proprio questa seconda motivazione (salvare Trieste dal comunismo ) a spiegare questa convergenza «strana» e assolutamente anomala tra i fascisti del Podesta e gli uomini del Cln: l’interesse per il futuro della città di San Giusto prevale infatti sui contrasti ideologici.

Anche in quel momento, di massimo contrasto politico, l’interesse della città, la difesa della sua identità italiana risulta prevalente.
D’altronde l’azionista antifascista Ercole Miani ed il fascista Cesare Pagnini provenivano entrambi dalla stessa esperienza, quell’ «irredentismo» che aveva lottato contro l’Austria asburgica per affermare l’italianità di Trieste.

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Arriviamo dunque al 30 aprile 1945: il presidente del Cln, don Edoardo Marzari, viene liberato dal Carcere del Coroneo, dove era nelle mani dei Tedeschi, e dà quindi il via all’insurrezione cittadina.

Dopo una giornata di combattimenti il CLN prende il controllo del centro della città (salvando così il porto), mentre le truppe di Tito sono ancora impegnate dai Tedeschi nella battaglia di Opicina.

Saranno quarantasei gli uomini del Corpo Volontari della Libertà a perdere la vita in questi scontri con i Tedeschi.
Sembra dunque, quel 30 aprile, che anche per Trieste sia così giunto il momento di metter fine alla situazione bellica, di festeggiare, finalmente, la pace come ormai festeggiavano il resto degli Italiani.

Ma non è così. Già il giorno dopo, il primo maggio, arrivano infatti in città le truppe di Tito: non sono «liberatori», ma – come si paventava – nuovi feroci occupatori i quali con la violenza e l’arbitrio vogliono realizzare l’annessione di Trieste alla Jugoslavia comunista.

Immediatamente impongono ai combattenti del Corpo Volontari della Libertà la consegna delle armi: nei primi tre giorni di maggio saranno centoventiquattro gli uomini del CLN assassinati dai partigiani comunisti di Tito. Il triplo dei 46 caduti per mano dei Tedeschi.
Su Trieste viene immediatamente imposto il sistema politico amministrativo jugoslavo. Perfino l’ora ufficiale è quella del fuso orario di Belgrado.

E l’OZNA (l’equivalente titoista del KGB staliniano) inizia a prelevare Triestini dalle proprie abitazioni (di solito nottetempo) per farli sparire per sempre: i più finiranno nelle nere fauci delle foibe carsiche.

Sarà l’applicazione di quella diversità di metodo della violenza comunista, rispetto a quella nazista. Gli uomini di Hitler prelevavano gli ostaggi, li portavano nella pubblica piazza e, convocando magari la popolazione, li fucilavano pubblicamente. Lo scopo era quello di dare prova della propria forza. Gli uomini di Tito (ma la metodologia sarà comune a tutti i comunismi) preferivano prelevare le persone da casa, spesso nottetempo, sovente assicurando che era solo per dei controlli. Poi di quelle persone non si aveva più notizia: finiti in qualche foiba o in lager lontani, comunque mai più tornati. Ai famigliari restava l’angoscia delle vane ricerche. Per tutti il timore che potesse capitare a chiunque, anche a loro. Lo scopo era raggiunto: aver creato il terrore, quello stato d’animo che lascia dietro a sé i suoi effetti a lungo, negli anni, nei decenni.

Mario Ravalico, autore di una biografia sul beato don Francesco Bonifacio, assassinato dai Titini in Istria nel ’46, mi raccontava che, nel 2015, nel fare le sue ricerche sui luoghi dell’assassinio del sacerdote, aveva trovato molte resistenze e ritrosie nel fornire testimonianze perchè la gente aveva ancora paura: don Bonifacio era stato assassinato 70 anni prima, il Comunismo responsabile del suo assassinio non esisteva più dal 1989 e la stessa Jugoslavia nel ’92 era stata cancellata dalla Storia.

Eppure la paura perdurava ancora. Perchè questa è l’efficacia veramente diabolica del terrore, produce effetti di incredibile durata.

Ritorniamo, comunque, a Trieste: nell’arco di 48 ore , tra il 30 aprile ed il 1° maggio sperimenta, così, sia la fine del secondo conflitto (quello contro il nazifascismo) che l’inizio del terzo conflitto mondiale, la così detta «guerra fredda», che vede contrapporsi per i successivi decenni lo schieramento occidentale e quello comunista.

Il tutto fino al 1989, quando il fronte comunista sprofonda nel più clamoroso dei fallimenti storici: un Impero, che controllava mezzo mondo, precipitato nel nulla senza bisogno di una rivoluzione o di una guerra persa, ma solo ed unicamente per implosione, perchè ormai profondamente marcio ed integralmente vuoto. Mai era successo nella Storia.

La profonda «diversità» del dopoguerra triestino nasce dunque in quelle lontane giornate di fine aprile e inizio maggio ’45.

L’occupazione della città di San Giusto, da parte delle milizie di Tito, è una vera e propria tragedia: migliaia e migliaia di persone scomparse, alla fine si conteranno quasi tre mila vittime.

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Ma ritorniamo ai primi giorni di maggio ’45: il giorno 5 un corteo composto in larga parte da ragazzi (erano quelli che si trovavano nel Giardino Pubblico di via Battisti) si muove dalle Rive e risale il Corso. Non ci sono simboli di partito, ma solo il tricolore e lo slogan scandito è «Italia, Italia».

Poco prima di piazza Goldoni, all’altezza di via Imbriani, vengono bloccati dalle mitragliatrici degli uomini con la stella rossa. Cinque morti e diverse decine di feriti resteranno sulla strada.

Tutti «nemici del popolo», rei di essere sfilati dietro al tricolore, invocando Italia e Libertà. Sarà la cruenta testimonianza del rifiuto triestino della soluzione jugoslava.

Forse anche in dipendenza di questo, certo per le mutate situazioni internazionali (una diversa linea politica degli USA), molto anche perchè agli Anglo Americani interessa direttamente il controllo del porto di Trieste, dal quale far pervenire i rifornimenti alla propria truppe che stanno occupando parte dell’Austria., sta di fatto che l’occupazione jugoslava di Trieste viene fatta cessare e le truppe di Tito sono costrette a lasciare la città di San Giusto e tutta la zona A.

Per i Triestini è stata una tragedia concentrata nell’arco di poco più di un mese, cioè dal 1° maggio fino al 12 giugno 1945, quando gli uomini del Maresciallo lasciano agli Anglo Americani la città di Trieste.

I «quaranta giorni» dei Titini a Trieste: una tragedia tale da lasciare dietro a sé una profonda scia di terrore, che si concretizza nella domanda angosciosa che per anni e anni peserà, anche inconsciamente, nell’animo dei cittadini di Trieste : «e se tornano i Titini?».

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A Trieste comunque la guerra non è del tutto finita o quanto meno non è ancora arrivata, del tutto, la pace.

A governare la città c’è sempre un Governo militare straniero, quello degli Alleati anglo-americani, che governa sui Triestini senza rispondere ad altri che a Londra e Washington.

La loro presenza è vissuta dalla città innanzitutto come protezione contro il rischio del ritorno di Tito, ma è comunque un essere governati da stranieri e da militari: una situazione certo ben diversa da quella normalità di pace che gli altri Italiani stanno comunque ormai sperimentando.

Nel frattempo si sono conclusi i negoziati per il Trattato di Pace. Viene firmato il 10 febbraio 1947 a Parigi: prevede la costituzione di un nuovo stato, il Territorio Libero di Trieste, comprendente, oltre al capoluogo giuliano, un territorio che va dal fiume Lisert al fiume Quieto, includendo così anche Capodistria, Isola Pirano, Umago, Cittanova e Buie.

Il nuovo stato – il TLT – dovrebbe prender vita con la nomina del suo Governatore da parte dell’ONU. Dovrebbe, ma così non avviene. Il fatto è che il Trattato era stato concepito sul presupposto che i quattro grandi – Usa, Urss, Francia e Inghilterra – fossero ancora gli Alleati che insieme avevano vinto il secondo conflitto mondiale, ma così non era più.

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Era infatti scoppiata la terza guerra, quella fredda, e pertanto gli ex Alleati erano ormai diventati i nuovi nemici: URSS, da un lato, contro Usa, Gran Bretagna. Ed era diventato impossibile dirsi d’accordo per nominare il Governatore per il Territorio Libero di Trieste. E difatti nessuna nomina ebbe luogo.

La città di Trieste e tutta una fetta dell’Istria restavano così in regime di precarietà, sotto l’occupazione e l’amministrazione militare: per Trieste (la cosiddetta Zona A) l’amministrazione militare era anglo americana, per l’Istria (la cosiddetta Zona B) l’amministrazione militare era jugoslava.

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Trieste sotto il G.M.A. (Governo militare alleato) resta per ben nove anni, fino cioè al 26 ottobre 1954, quando si realizzerà il suo ricongiungimento alla Madrepatria.
Nove anni vissuti in una relativa tranquillità (anche da un punto di vista economico), ma certo sotto il segno della precarietà.

In una prima fase c’è il pericolo concreto che Tito tenti un colpo di mano militare per impossessarsi della città. Nell’ autunno del ’47 c’è appunto un inizio di invasione della Prima brigata proletaria, bloccata in extremis da un contro ordine di Tito, dopo che alcuni reparti jugoslavi avevano già attraversato il confine.

Questa situazione si modifica però quando, nel ’48, si verifica la rottura tra Stalin e Tito e la espulsione di quest’ultimo dal Cominform, l’organismo che raccoglieva tutti i partiti comunisti.

Tito, paventando un’invasione dell’Armata Rossa sovietica, chiede ed ottiene immediata protezione dagli Americani. Ottiene la copertura politica, nonché consistenti aiuti economici e militari. Al contempo, all’interno della Jugoslavia, si scatena una feroce lotta tra Servizi: il KGB staliniano cerca di organizzare una sollevazione anti Tito, quest’ultimo dà vita ad una feroce caccia ai Cominformisti (coloro che erano rimasti fedeli a Stalin), i quali a migliaia finiscono nei Gulag titoisti.

Uno di questi è la tristemente rinomata Isola Calva – Goli Otok, ove la crudeltà del regime carcerario ha superato tanto i lager nazisti che i gulag staliniani: fondamento del regime carcerario di Goli Otok era che i detenuti stessi fossero obbligati a seviziare i compagni di prigionia, il termine tecnico era «bojkot» e la finalità dichiarata era la «rieducazione».

Di certo, con questa situazione interna, Tito non può più pensare a colpi di mano su Trieste.
In compenso, il suo nuovo ruolo internazionale di protetto dagli Americani, gli permette di giocare la carta diplomatica, sempre per cercare di mettere le mani sul porto giuliano, a cui non ha rinunciato.
Di ciò i Triestini hanno piena consapevolezza. Si erano illusi quando, nel ’48, Stati Uniti, Inghilterra e Francia avevano sottoscritto la «Nota tripartita» con la quale si esprimeva la volontà che zona A (Trieste) e zona B (Istria) venissero entrambe assegnate all’Italia.
Quell’impegno non era stato rispettato. Si era rivelato poco più di una sortita da campagna elettorale a sostegno dello schieramento anti sinistre nelle elezione italiane del 18 maggio 1948. Quelle nelle quali De Gasperi sconfiggerà Togliatti.
Ora, nella nuova situazione internazionale, nella nuova collocazione della Jugoslavia c’era la netta sensazione che Tito potesse ottenere in via diplomatica ciò che non aveva avuto in via militare.

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C’è soprattutto un fatto nuovo. Il 7 marzo 1953 muore Giuseppe Stalin. La notizia è accolta da Tito con un commento immediato «ora possiamo riprenderci una politica estera», dirà al suo collaboratore Gilas.

E la nuova politica lo porta a riaprire immediatamente la «questione Trieste» con discorsi minacciosi e raduni, alla frontiera, di ex partigiani.
L’Italia, a queste minacce, reagisce ed il presidente del Consiglio Giuseppe Pella manda i carri armati al confine tra Italia e Zona A.

Tito a sua volta manda i carri armati (si preoccupa di istruire i suoi militari affinché non siano quelli forniti dagli Usa, ma quelli di produzione sovietica).
Quella militare è però solo una prova di forza, bloccata dalla risposta italiana.

In realtà Tito diventerà ora disponibile a soluzioni negoziali, proprio perchè la sua nuova politica estera ha altri obbiettivi.
E’ comunque Trieste ora a diventare protagonista.

Il 4 novembre 1953 una folla di Triestini, reduci dalla cerimonia a Redipuglia, si raccoglie in piazza Unità invocando il ritorno dell’Italia.

Il Sindaco Gianni Bartoli fa issare il tricolore sul Municipio, ma gli uomini del GMA (ormai a conduzione inglese) intervengono per strapparlo.

L’episodio provoca, il giorno dopo, sciopero di protesta nelle scuole e manifestazioni studentesche. La polizia interviene pesantemente e studenti vengono inseguiti fino all’interno della Chiesa di Sant’ Antonio e presi a bastonate. La chiesa viene sconsacrata e per il pomeriggio del giorno 5 il vescovo mons. Antonio Santin fissa il Rito di Riconsacrazione.

La presenza di Triestini alla cerimonia è massiccia e la polizia, schierata di fronte alla Chiesa, ad un certo punto spara: ci saranno due morti (uno è il quindicenne Pierino Addobbati) e tanti feriti. Il giorno dopo gli scontri si ripetono: in piazza Unità, in Corso ed in altre zone della città. Il bilancio finale sarà di sei caduti e di decine e decine di feriti, anche gravissimi.

Nel 2004 il Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi, accogliendo una richiesta della Lega Nazionale, conferirà la medaglia d’oro alla memoria a questi: sei caduti del novembre ’53, definendoli «Ultimi martiri del Risorgimento Italiano».

Mi è caro ricordare, con gratitudine, i loro nomi: Piero Addobbati, Francesco Zavadil, Francesco Paglia, Leonardo Manzi, Erminio Basso, Saverio Montano. Quelle giornate di sangue del novembre ’53 danno comunque la testimonianza di quale fosse la volontà dei Triestini e di come la situazione andasse decisamente affrontata.

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Tito, dopo questa ultima «spallata» su Trieste, è ormai pronto a aprire una nuova stagione della sua politica estera.
Si dedicherà a promuovere la rivoluzione nel Mediterraneo (finanziando i movimenti algerino ed egiziano) per poi costruirsi il suo ruolo tre i cosiddetti «non allineati».

Per Trieste si arriverà invece al Memorandum di Londra e, il 26 ottobre 1954, le truppe italiane arriveranno nella città di San Giusto.

Saranno accolte da un tripudio di folla, donne, uomini, bambini tutti nelle strade, commossi, felici, entusiasti. Trieste era ritornata ad essere Italia. La presenza dei nostri soldati era finalmente sicura garanzia che i Titini non sarebbero ritornati.

E Trieste poteva, così, finalmente festeggiare la fine del suo lungo e diverso dopoguerra.

Il 4 novembre, in una piazza Unità nuovamente traboccante di Triestini, felici e commossi, ci saranno i discorsi del capo dello Stato Einaudi, del capo del governo Scelba e del Sindaco Bartoli.

C’è un documentario intitolato «Viva l’Italia», opera di Marcello Spaccini, il liberatore di don Marzari il 30 aprile ’45 ed il futuro Sindaco di Trieste. Racconta i fatti del ’53 e si conclude con le immagini trionfali di piazza Unità, ma testimonia, sul fondo della piazza, un grido ben percepibile «Istria, Istria, Istria» .

Il pensiero dei fratelli istriani rimasti nelle mani del regime titoista e sempre più costretti a lasciare tutto, per avviarsi verso l’esilio a vita era un’ ombra non da poco che gravava su quella piazza festosa.

E sarà anche un ultimo impedimento alla normalizzazione piena della realtà triestina.

Il fatto è che il Memorandum di Londra non era un trattato, ma solo un accordo pratico che archiviava il Tlt, consegnando all’Italia l’amministrazione civile di Trieste e della zona A ed alla Jugoslavia l’amministrazione civile della zona B.

L’amministrazione, ma non la sovranità. Questa era infatti rimasta sempre all’Italia (non essendo mai nato il TLT a cui andava trasferita), sicché, mentre per Trieste sovranità e amministrazione ora coincidevano, per la zona B, amministrata dalla Jugoslavia, la sovranità continuava a spettare all’Italia.

Per intenderci: anche dopo il Memorandum di Londra il confine Jugoslavo era ancora quello del Trattato di Pace (il fiume Quieto) e non quello tra Capodistria e Muggia, che costituiva solo una linea di demarcazione.

Una questione «aperta» che tale resterà per anni, durante i quali la Jugoslavia cercherà ripetute volte di forzare le cose: così mettendo cippi con l’indicazione «confine di Stato» (anzichè linea di demarcazione) o imponendo ai cittadini della zona B carte di identità jugoslave. In ognuna di queste situazioni l’Italia risponderà con proteste diplomatiche, volte a lasciare appunto invariata la situazione giuridica tra i due stati.

Il tutto fino al 1975, quando scoppierà la notizia del Trattato di Osimo. Ma questa è un’altra storia.

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