Foibe, il vero volto del comunismo titino

Resoconto dell’incontro svolto all’Angvd, sede di Milano, giovedì 21 Gennaio, alle ore 17.00., in diretta via facebook alla pagina dell’Associazione https://www.facebook.com/groups/2559430654128300,  l’incontro trattava il tema  “Le altre foibe, dalla Slovenia la mappa dell’orrore, il vero volto del comunismo titino fuori dai luoghi comuni” relatore Claudio Giraldi.

di Claudio Giraldi  La recente scoperta, in Slovenia, nella zona dell’altopiano carsico di Kočevski rog, di una foiba, contenente i resti di 250 persone trucidate ed infoibate, ha riacceso i riflettori su una drammatica pagina di storia, come tante altre purtroppo, sconosciuta ai più. Se il dramma legato a questa foiba, ultima scoperta in ordine di tempo ma non certo ultima in assoluto, lo colleghiamo poi al risorgere dello spirito negazionista o riduzionista che si manifesta all’avvicinarsi del Giorno del Ricordo, abbiamo il segnale tangibile e concreto di come si voglia, a più di trent’anni dalla caduta del muro e dalla dissoluzione della Jugoslavia, non voler fare i conti con la storia, quella storia che non si può ne cancellare ne confondere, ma solo accertare e accettare.

Il fatto che tra le vittime ci sarebbero oltre un centinaio di ragazzini tra i 15 e i 17 anni, la dice lunga sulla ferocia delle esecuzioni e sulla dinamica usata e messa in atto in nome di un’ideologia ormai condannata dalla storia. Forse erano i figli delle famiglie di domobranci, le truppe slovene schierate contro Tito che si erano arresi, in massa, agli inglesi in Austria nel 1945, a guerra finita, ma furono rispediti indietro, come vedremo più avanti, nelle mani dei carnefici.

Cade quindi, se ce ne fosse bisogno, la pregiudiziale comunista, non solo di casa nostra, che le violenze, in primis contro gli italiani (poche decine di morti come asseriscono i cosiddetti custodi della verità), furono un risposta “giusta” all’occupazione straniera.

L’aspetto agghiacciante di questo ultimo ritrovamento sta nel fatto che la squadra di scavo ha anche trovato, sopra i resti degli infoibati, dei corpi e per questo si sospetta che questi fossero prigionieri incaricati di coprire il baratro, ma in seguito furono liquidati anche loro e fatti precipitare all’interno per togliere di mezzo scomodi testimoni.

Il responsabile delle indagini di polizia, ha dichiarato che incrociando dati e testimonianze sull’attività partigiana in quella zona, la responsabilità dell’eccidio è da attribuire all’Ozna, la polizia segreta jugoslava, e in particolare al suo braccio operativo, il Knoj (Korpus narodne obrambe Jugoslavije), ovvero il Corpo di difesa popolare della Jugoslavia, costituito da partigiani ed incaricato della sicurezza interna dei territori “liberati”, durante la seconda guerra mondiale e in seguito nella neo Jugoslavia comunista.

La narrazione degli avvenimenti, oggetto della nostra conferenza, ha lo scopo di mettere in risalto come i tragici fatti avvenuti in altre parti della Jugoslavia, e quindi non solo nell’ex Venezia Giulia e Dalmazia facessero parte di un piano, organico e preordinato, di occupazione di fatto dei territori che venivano man mano liberati per instaurarvi un regime dittatoriale comunista che saldasse la Jugoslavia alle repubbliche, cosiddette socialiste, che erano nate ai confini orientali dell’Europa sotto l’egida dell’URSS.

Il disegno quindi presupponeva una vasta e sistematica opera di eliminazione di ogni forma di dissenso che si frapponesse agli obiettivi strategici di Tito, che, per poter raggiungere l’obiettivo prefissato, aveva bisogno di una struttura poliziesca e di repressione ben strutturata, che facesse da apripista al consolidamento di un potere egemonico e dittatoriale non certo di stampo democratico.

Non va dimenticato inoltre il ruolo degli alleati, passivo il più delle volte ma in altre collaborativo, come evidenziato nei fatti che andremo a narrare più avanti.

Per comprendere come sia stato possibile l’attuazione di un piano lucido e criminale, bisogna innanzi tutto conoscere il contesto entro il quale tutto poté succedere e quali furono gli attori di questa tragedia.

L’OZNA modellata sullo schema organizzativo dell’NKVD sovietico (la polizia segreta sovietica), nata con il compito di difendere la rivoluzione, e considerata il “suo braccio armato“, a cui era affidata una funzione essenzialmente repressiva, ovvero di controllo del territorio liberato.

Gli jugoslavi perciò seguirono il modello repressivo sovietico e i quadri dell’OZNA furono infatti addestrati direttamente in URSS.

Avviò la sua attività operativa alla fine del 1944, in Vojvodina, dove dopo la liberazione di Belgrado fu istituita l’Amministrazione militare del Banato, della Bačka e della Baranja (regioni costituenti la Vojvodina), che durò fino al febbraio 1945, quando fu lasciato il posto all’amministrazione civile del territorio, attraverso i Comitati popolari di liberazione.

Fu in questi territori che gli “istruttori” sovietici aiutarono inizialmente gli jugoslavi a punire “esemplarmente” innanzitutto gli slavi facenti parte della minoranza tedesca, che si erano schierati in massa coi nazisti e che non erano riusciti a mettersi in salvo nelle fasi concitate della fine del conflitto.

Questi slavi della Vojvodina furono uccisi, deportati o rinchiusi in campi di concentramento, per essere, se sopravvissuti, espulsi dal paese molto tempo dopo la fine della guerra.

Aleksandar Rankovic, uno dei più stretti collaboratori di Tito e capo dell’Ozna a livello nazionale, alcuni anni dopo la fine della guerra, puntualizzò che nel momento della presa del potere, il compito principale degli organismi dell’Ozna era stato quello di: (parole sue) “ripulire i nostri territori e le nostre città dai servi dell’occupatore, dai traditori e dai nemici che per anni si sono macchiati di crimini contro il popolo”.

Infatti, man mano che i territori venivano “liberati”, alla fine del 1944 e nel 1945, nel momento della presa del potere, fu l’Ozna che ebbe il compito di mettere in atto una spietata resa dei conti con gli occupanti tedeschi e italiani, con i četnici, gli ustaša e i belogardisti, con i domobranci, ma anche con tutti i potenziali o presunti nemici di classe.

Vennero eliminati sistematicamente non solo i nemici di ieri, ma anche quanti, nel presente e nel futuro, avrebbero potuto mettere in discussione gli obiettivi politici dei comunisti jugoslavi, obbiettivi, che nel territorio della Venezia Giulia consistevano nell’annessione della regione alla neonata Jugoslavia, ma più in generale creare un nuovo ordine politico, il potere popolare.

Ebbe così inizio un periodo che vide la persecuzione estendersi progressivamente a tutti i nemici reali e supposti del nuovo regime, dato che ogni oppositore politico (esponenti di qualsiasi partito diverso da quello comunista), ogni rappresentante sociale (piccola e grande borghesia, ceto medio), ogni membro religioso o culturale (gli intellettuali) sarebbe stato etichettato come collaborazionista, o nemico del popolo, tramite il solerte lavoro dei “tribunali del popolo” che avrebbero ridotto al silenzio qualsiasi voce di dissenso.

Anche quelli che riuscirono a consegnarsi agli alleati, furono quasi sempre respinti e riconsegnati ai comandi jugoslavi. Ci furono arresti e deportazioni in massa nei campi di concentramento, si ebbero uccisioni, fucilazioni e liquidazioni sommarie di prigionieri, violenze verso chi venne incolpato (senza processo) di essere collaborazionista, verso chiunque non si allineava con il potere jugoslavo.

In questo modo a cadere furono anche molti antifascisti non comunisti, tutti etichettati di collaborazionismo, ma in realtà colpiti perché considerati potenziali oppositori politici.

Tristemente noti rimangono, soprattutto nella memoria dei croati e degli sloveni, ma anche dei serbi, i massacri di Bleiburg, elevati a simbolo della tragedia dei croati, e di Kočevje, dove a venir eliminati furono i domobranci sloveni, o Backa, dove per tutelare il carattere slavo della zona, furono fatte sparire tutte le minoranze, ma in quel caso maggioranze, non slave.

In queste ondate di violenze, perse la vita un numero imprecisato di persone. Il loro numero sul territorio croato varia a seconda delle fonti, oscillando da un minimo di 50.000 ad un massimo di 200-250.000 vittime.

Già nel Dicembre 1944, l’Ozna per la Croazia aveva inviato ai suoi organismi locali, nella zona di Zagabria, una comunicazione con relative istruzioni sui compiti spettanti all’Ozna e ai CPL durante le fasi di liberazione del territorio. Tali istruzioni stabilivano che ad entrare per primi nelle cittadine dovevano essere i rappresentati dell’esercito, e le truppe armate dell’Ozna (il KNOJ).

Inizialmente, tutto il potere, in particolare quello amministrativo, doveva essere concentrato nelle mani dell’Ozna stessa, ai cui ordini dovevano sottostare pure gli organismi amministrativi dei CPL. Solo in seguito, quando l’Ozna avrebbe ultimato il suo compito di “ripulitura” del territorio dagli “elementi nemici”, il potere sarebbe passato ai CPL, i quali avrebbero provveduto ad organizzare la struttura politica e il potere popolare.

Alla fine dell’ Aprile 1945, l’Ozna della regione di Zagabria inviò nuove direttive, molto più dettagliate, ai suoi organismi inferiori. Venivano indicate le istituzioni che dovevano essere occupate dall’esercito, il sequestro di tutto l’inventario e l’archivio di tali istituzioni, ovvero degli stabilimenti industriali, delle banche e tutte le altre principali istituzioni cittadine.

L’Ozna infatti non si limitò all’arresto dei nemici del popolo, ma assieme ai rappresentanti della sezione amministrativa dei CPL, aveva il compito procedere pure al sequestro di tutti i beni relativi a tali nemici del popolo.

Tra la fine del 1944 e l’inizio del 1945 erano state liberati gran parte dei territori di quello che sarebbe diventato il futuro Stato jugoslavo, e ci si avviava a tappe forzate alla presa del potere e alla creazione di un ordine nuovo, in sostituzione a quello precedente. Rancori e ritorsioni personali, uccisioni indiscriminate, la decapitazione delle strutture di comando nei villaggi e nelle cittadine trovavano una motivazione nel concetto di “atto rivoluzionario e di liberazione nazionale”.

Sia in Slovenia che in Croazia alla fine della guerra i comunisti titini fecero strage non solo dei connazionali filofascisti e filonazisti ma innanzitutto dei partigiani non comunisti, temuti antagonisti di una Jugoslavia democratica che Tito vedeva come il fumo negli occhi.

Si calcola che nei dintorni di Lubiana circa 8mila di questi ultimi (partigiani anticomunisti) siano stati sterminati e sepolti in giganteschi cimiteri segreti. Il grande numero di fosse comuni esistenti in Slovenia costituisce addirittura un problema “edilizio”: scavando per edificare qualcosa, si rischia di trovarne una. La più grande fu scoperta durante la costruzione dell’autostrada A1 nel 1999 vicino a Maribor, nel nord della Slovenia, era originariamente una fossa anticarro, e misurava un chilometro di lunghezza, 4-6-metri di larghezza e 2 metri di profondità. Conteneva i resti di più di 15.000 vittime, nella maggior parte soldati croati e loro familiari.

Tempo fa il ministro degli Interni Croato, ha affermato che in Croazia sono stati individuati 718 siti in cui avvennero crimini ad opera dei comunisti e che 628 di questi sono fosse comuni, affermando che in questi luoghi d’occultamento possano trovarsi i resti di 90mila persone, soprattutto di nazionalità croata, considerati anticomunisti o “nemici del popolo”, civili, donne e bambini, come pure di soldati italiani e tedeschi.

Sino ad ora sono state effettuate 81 riesumazioni che hanno portato al ritrovamento di circa 4000 corpi, appartenenti nella stragrande maggioranza dei casi a prigionieri di guerra, militari e civili che venivano legati con filo metallico, anche a gruppi, e poi finiti con un colpo d’arma da fuoco alla nuca.

Finora in Slovenia e in Croazia questi orrori vengono divulgati con estrema cautela e a volte addirittura censurati. La ragione risiede nel fatto che nelle classi dirigenti adesso al potere sono troppo numerosi coloro che a vario titolo hanno legami famigliari o ideologici con quanti parteciparono a questi massacri.

Ci si dovrebbe anche domandare come mai siano dovuti trascorrere tanti anni dalla fine della Jugoslavia, perché l’Italia ufficiale togliesse alla vicenda il velo di silenzio che la copriva da quando nel 1948 Tito era divenuto un utile alleato dell’Occidente.

Per entrare nel merito della nostra narrazione incominciamo da un episodio di altissima drammaticità rimasto finora sconosciuto che ci riguarda molto da vicino.

È il Maggio 1945, alcuni battaglioni di soldati inglesi scortano e trasferiscono su treni merci, dai campi di prigionia situati in Italia, lungo la costa marchigiana, diecimila soldati della “Difesa anticomunista del territorio sloveno”, per consegnarli agli sgherri di Tito.

Sono i “domobranci”, ragazzi che hanno risposto alla chiamata alle armi del governo di Lubiana, sotto protettorato tedesco, e hanno fatto il loro dovere, battendosi contro le bande di Tito. Il loro destino? Le foibe, dove verranno gettati vivi dopo avere subito orribili sevizie.

Si erano arresi alle truppe britanniche sperando nella prigionia garantita dalla Convenzione di Ginevra. Ma gli inglesi li tradirono vigliaccamente. E non sarà ne la prima ne l’ultima volta.

Perché poté succedere tutto questo? La storia “ufficiale” per pudore non l’ha ancora spiegato, ma qualche storico una spiegazione l’ha fornita: gli inglesi dovevano in qualche modo sottostare ad accordi inconfessabili presi in altre sedi.

Si è scoperto infatti il perché di un simile crudele comportamento, bisogna collegarsi alla conferenza di Jalta del febbraio 1945 dove era stato ratificato un accordo sulla restituzione reciproca dei prigionieri di guerra.

Secondo richieste già espresse in precedenza da Stalin, venne ratificato un codicillo segreto, che stabiliva l’obbligo, da parte degli alleati, della consegna di tutti i cittadini sovietici che si fossero trovati nelle zone alleate al termine del conflitto, aldilà della volontà da essi espressa.

La responsabilità principale dell’aver accettato in toto le vergognose richieste sovietiche viene attribuita al ministro degli esteri inglese Anthony Eden, forse per via di una sorta di sudditanza psicologica nei confronti del dittatore sovietico.

Poiché l’accordo, già di per se assurdo e cinico, interessava solo ed esclusivamente i prigionieri sovietici, non si capisce perché, senza alcuna intesa preventiva, lo stesso trattamento sia stato usato nei confronti degli slavi che si arrendevano in Austria e che vennero consegnati, loro malgrado, agli sgherri di Tito.

Ma passiamo a narrare di questi atroci episodi che avevamo accennato in precedenza e che possono essere considerati la dimostrazione lampante, al di la di ogni ragionevole dubbio, della volontà prevaricatrice e violenta usata al solo fine di raggiungere e consolidare un potere dispotico e tirannico.

Partiamo da Bleiburg. Cos’è Bleiburg

Prima di entrare nel merito bisogna dire qualcosa a proposito di Bleiburg per capire l’importanza dell’intera vicenda. Ogni anno, a maggio, la Croazia attira l’attenzione dei media internazionali per una cerimonia organizzata su un prato nei pressi della città austriaca di Bleiburg dove, con la celebrazione di una messa, vengono commemorati i collaborazionisti dei nazisti e i moltissimi civili uccisi dai partigiani titini in quella località, alla fine della Seconda guerra mondiale.

Massacro di Bleiburg

Vediamo i fatti. Alle ore 21 del 14 maggio 45, un ufficiale croato raggiunse la zona di occupazione del quinto CA inglese a Bleiburg, ad Est di Klagenfurt, offrendo la resa di due Armate croate, (116.000 militari) con al seguito 60.000 civili croati, 17.000 soldati delle forze collaborazioniste serbe e slovene e circa 10.000 civili sloveni, già entrati in territorio austriaco nei pressi appunto di Bleiburg. Questa enorme massa aveva resistito agli attacchi delle formazioni jugoslave che la inseguivano e, giunta in territorio austriaco, chiedeva la protezione delle truppe inglesi ivi stanziate appartenenti alla 38ª Brigata di fanteria britannica.

Il comandante croato, generale Herenčić, si recò a negoziare la resa dal comandante britannico, brigadier generale Patrick Scott. Un giovane generale jugoslavo Milan Basta, appena arrivato anche lui sul luogo con le proprie truppe partigiane, pretese di presenziare ai colloqui, e sostenne con forza che la resa andava effettuata alle forze titine anziché agli inglesi.

Il comandante inglese Scott lo appoggiò palesemente, affermando che gli inglesi non avrebbero consentito l’espatrio dei croati e sloveni nel territorio austriaco sotto il loro controllo, anche se già presenti in luogo.

Alla fine di queste serrate e drammatiche trattative, il generale croato Herenčić dovette darsi per vinto, dopo aver ricevuto l’assicurazione fornita dallo slavo e dall’inglese che i prigionieri di guerra, una volta in Jugoslavia, sarebbero stati trattati come tali. Alle ore 04.30 del giorno 15 maggio, fu firmato un accordo che prevedeva come stabilito, il trattamento di prigionieri di guerra per i militari croati e il rientro a casa per i profughi civili.

Con quell’accordo, lo Stato indipendente di Croazia cessava di esistere dopo quattro anni di vita. Disarmati i croati, e allontanatosi il Comandante inglese Scott, le forze jugoslave, appostate ai margini della piana, ove i croati avevano eretto i loro bivacchi, aprirono il fuoco con le mitragliatrici pesanti contro quella massa ormai inerme, stanca e insonnolita.

Incapace di rendersi conto di quanto stava succedendo, la gente correva in tutte le direzioni creando una indescrivibile confusione mentre le mitragliatrici ed i mortai jugoslavi continuavano a spazzare il campo, da un capo all’altro. Fu un massacro, una volta accertata l’inesistenza di qualsiasi reazione croata, i partigiani jugoslavi si avventurarono in mezzo ai corpi finendo i feriti con le baionette. I sopravvissuti furono radunati, incolonnati e avviati in Slovenia.

Una pattuglia motorizzata inglese, rimasta sul posto a seguire gli eventi, senza intervenire, vide uomini, donne, bambini, bastonati, frustati e talvolta uccisi senza apparente motivo mentre si incamminavano verso il confine sloveno. Il trasferimento dei sopravvissuti si concluse il 16 maggio.

Quante vittime croate vi furono a Bleiburg non è noto, ma furono certo moltissime. I militari croati superstiti furono suddivisi in gruppi e fatti marciare per giorni e giorni attraverso le strade della Slovenia, Croazia, Serbia, con le mani legate con fil di ferro o filo elettrico, affamati, assetati, sfigurati.

Chi non riusciva a tenere il passo veniva pugnalato o fucilato e abbandonato a lato della strada. A queste “marce della morte” pochi sopravvissero. Secondo le ricostruzioni, i luoghi delle esecuzioni (spesso fosse comuni o cavità naturali, come le foibe) erano anche molto distanti tra loro. Infatti i prigionieri vennero trasferiti con marce della morte tra diversi luoghi di detenzione e quelli di esecuzione.

I rifugiati politici croati all’estero resero pubbliche le prove delle atrocità commesse da Tito e i suoi seguaci, dimostrando il coinvolgimento nel massacro del governo britannico dell’epoca: secondo le accuse, le autorità britanniche avevano interesse politico a nascondere le loro responsabilità e quelle del comandante comunista jugoslavo, almeno per un certo periodo, in quanto Tito era molto utile in funzione antisovietica. Secondo lo studioso croato Vladimir Zerjavić fu 55.000 il totale delle persone uccise nell’area di Bleiburg e in Slovenia. Il giornalista britannico Misha Glenny ritiene che i militari disarmati uccisi furono circa 50.000 e i civili circa 30.000.

Secondo le ricerche eseguite dalle autorità slovene, che hanno fatto scavare nel loro territorio tra il 1999 e il 2001, le vittime ammonterebbero a oltre 250.000: le fosse comuni rinvenute sarebbero 296 e sarebbero stati trovati i resti di circa 190.000 cadaveri. Solo nella zona della foresta di Tezno si stimano 60-80.000 uccisi

Passiamo ora al massacro di Bačka

Bačka si trova al confine tra la Croazia e la Serbia, e il massacro compiuto in quella zona, tra la fine del ’44 e i primi mesi del ’45, è un’altra delle numerose stragi commesse dall’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, su preciso ordine di Tito. In questo caso non si tratto di una ritorsione ma di una vera e propria pulizia etnica contro cittadini di etnia tedesca e ungherese, nonché contro prigionieri serbi che si erano arresi e presunti reduci dell’esercito iugoslavo in patria che cercavano di nascondersi o fuggire all’estero.

Contesto storico

Durante la seconda guerra mondiale nel 1941 i nazisti occuparono la Jugoslavia. La regione della Voivodina venne divisa in tre zone:il Banato sotto diretto controllo nazista, la zona di Bačka dall’Ungheria di Horthy e il distretto della Sirmia dallo Stato Indipendente di Croazia.

Fin dall’inizio gli occupanti commisero molti crimini, colpendo specialmente i serbi, gli ebrei e i cittadini in generale che si opponevano all’occupante tedesco. Pertanto molti abitanti della Voivodina, appartenenti a tutti i gruppi etnici, entrarono nella resistenza contro gli invasori.

Bačka era una regione molto eterogenea dal punto di vista etnico

Nel 1944 l’Armata Rossa riuscì a sfondare il fronte, cedendo poi il controllo della zona ai partigiani jugoslavi. Il 17 ottobre 1944, per ordine di Tito, nel Banato, nel Bačka e nella Baranja venne insediata un’amministrazione militare. Tito per quanto riguardava l’amministrazione militare disse testuale: “La liberazione di Bačka, Banato e Baranja richiede il ritorno alla vita normale nel più breve tempo possibile e l’insediamento del potere democratico popolare in questi territori”.

Eventi

Le truppe partigiane avevano ricevuto il seguente ordine: “si doveva mostrare la più forte determinazione possibile contro gli esponenti della quinta colonna, specialmente contro tedeschi e ungheresi”. Il generale di brigata Ivan Rukavina, sempre eseguendo la volontà di Tito, ordinò che “si dovesse tutelare il carattere slavo della zona” ma era ben noto che in tale posto mai nella storia gli slavi erano stati maggioranza, la quale invece era costituita da ungheresi seguiti da tedeschi e solo una minoranza era slava pur considerando serbi e croati assieme. Il messaggio era di una chiarezza cristallina, ai militi titoisti era stato affidato il compito di praticare una cruenta e sanguinosa pulizia etnica contro gente non etnicamente slava.

Controversie circa il numero di vittime

Varie fonti riportano numeri di vittime diverse. Un documento jugoslavo “Il libro delle prove delle vittime di crimini di guerra nel 1944/45” afferma una totale di 1686 uccisioni nel Bačka, circa 1000 delle quali presunti ungheresi. Lo storico Kasaš stima che furono 5.000 solo gli ungheresi uccisi. Altre stime indicano in decine di migliaia il totale delle uccisioni. Le stime pertinenti i cittadini di etnia tedesca vanno da 17.000 a 20.000 uccisi.

Massacri di Cocevie in Slovenia

Continuando nella tremenda mappa dell’orrore torniamo in Slovenia per parlare di quelli denominati come i massacri di Cocevie che furono in sostanza le esecuzioni sommarie di massa di prigionieri di guerra, in buona parte domobranci sloveni, ma anche collaborazionisti croati, avvenute a opera di reparti speciali dei partigiani comunisti jugoslavi nell’estate del 1945 sull’altopiano carsico, nei pressi di Cocevie.

Storia

Ma chi erano questi domobranci, di cui già ci siamo occupati?. Il tutto si colloca in una serrata discussione sulla Seconda guerra mondiale. Gli studiosi dei movimenti collaborazionisti sottolineano, che questo fenomeno riguarda soprattutto la Slovenia centrale e la Bassa Carniola e coinvolge meno le altre regioni del paese. Il fenomeno, spiegano gli studiosi, nacque dalle errate valutazioni della Chiesa cattolica e dei maggiorenti del Partito popolare, che consideravano inevitabile la vittoria nazista e che perciò cercarono di trovare un modus vivendi con i nuovi padroni. La formazione di unità collaborazioniste viene letta, però, anche come una risposta all’ardore rivoluzionario che i partigiani, dal 1942, misero in atto nelle zone da loro liberate.

In questo contesto quindi si colloca l’accento sulla specificità del collaborazionismo sloveno, che pur operando agli ordini della Germania nazista ed appiattendosi, forse senza eccessivo entusiasmo, all’ideologia del Terzo Reich, mantenne una dimensione locale e fortemente legata ai valori nazionali; tanto che riorganizzò la scuola slovena anche nelle zone a forte presenza slovena del regno d’Italia occupato dai nazisti.

Ciò non mise al riparo i collaborazionisti da una atroce resa dei conti, anzi. A guerra finita le truppe jugoslave li passarono per le armi senza processo. La stessa sorte toccò a quelli che si erano rifugiati in Austria, per arrendersi agli Alleati, e si accamparono in un campo improvvisato a Viktring, sempre nei pressi di Klagenfurt.

Dal 27 al 31 maggio, per mano degli inglesi, iniziarono i rimpatri forzati via treno e consegnati ai partigiani titini. I prigionieri vennero confinati dai partigiani jugoslavi in campi di concentramento, i più grandi dei quali erano uno nei pressi di Lubiana, e uno vicino a Celje.

Gli sloveni vennero divisi in tre gruppi. Quelli del gruppo più numeroso, vennero uccisi in pochi giorni, spesso dopo maltrattamenti e torture. Nelle isolate foibe di Kočevski rog vennero liquidati, perlopiù con un colpo alla nuca, i prigionieri provenienti dal campo vicino a Lubiana, dopo un trasporto in treno fino a Kočevje e da lì in camion fino ai luoghi di esecuzione. E’ a questa mattanza che si possono ricondurre probabilmente le vittime dell’ultima foiba scoperta che ha aperto la nostra narrazione.

Vittime 

Le vittime delle stragi avvenute a Kočevski rog vengono stimate in 14.000, sebbene alcune testimonianze forniscano numeri più alti. Lo scrittore Boris Karapandzic nel suo libro del 2008 “i crimini di Tito” parla di 12.000 domobranci sloveni, 3.000 serbi, 2.500 croati e 1.000 montenegrini.

Anche in questo caso l’immane sterminio era avvenuto dopo la fine della guerra, il che costituisce un’ aggravante agghiaciante.
Alcuni anni dopo la fine della seconda guerra, una lunga petizione redatta a Dusseldorf da esiliati croati, fu presentata alla Croce Rossa internazionale di Ginevra. Essa esigeva un chiarimento circa la sorte delle decine di migliaia di soldati croati e tedeschi trucidati dai partigiani comunisti in Iugoslavia.

La petizione, corredata da numerose dichiarazioni rilasciate da testimoni oculari, chiedeva l’apertura delle fosse. Il problema fu dibattuto anche al XX° Congresso della Croce Rossa Internazionale a Vienna, svoltosi dal 2 al 9 ottobre 1965 ma, nonostante la chiarezza della documentazione presentata, rimase lettera morta.

Sull’ immenso bagno di sangue, i sacrosanti auspici di giustizia, dal punto di vista giuridico e quello umanitario incontrarono un’ insensibilità preordinata, chiaramente motivata da interessi politici, finendo poi per illanguidire nel silenzio. Oggi si scopre, con tardiva memoria che i cimiteri di questi orrendi eccidi sono presenti un po’ dappertutto in Croazia e Slovenia, mentre, purtroppo, il numero complessivo delle vittime resta ancora un mistero. Ma sono molti, anzi troppi, quelli che non vogliono ancora far e i conti col passato.

Se si pensa che su una popolazione, censita nel 1939, di 15.400.000 mila unità, in Jugoslavia si ebbero, a seconda delle fonti, tra 1.300.000 e 1.500.000 morti e di questi solo 300.000 erano vittime militari, si può quindi comprendere come le cifre benché enormi corrispondano alla realtà.

Chiudo questa pagina di storia con una poesia, dedicata alle stragi nelle foibe. L’autore è il compianto Marco Martinolli, fondatore e Presidente della sezione di Monfalcone della Lega Nazionale (sodalizio da sempre impegnato sul fronte dell’italianità storica e culturale di Istria e Dalmazia). La poesia, dedicata ai martiri Giuliani e Dalmati, penso possa ricordare tutti quelli che subirono quella tragica sorte sotto qualsiasi bandiera.

Foiba

Un filo d’acciaio taglia l’anima
che grida pietà, sul ciglio della morte.
Foiba parola che sgretola la vita.
Foiba parola che inchioda alla croce,
senza respiro, senza assoluzione.
Mani e piedi legati dall’odio e poi giù,
nel buio mentre la tua vita sfracella
tra le pareti nere di pietà.
Uomini, donne, padri, madri,
violentati dalla follia della morte,
dalla pazzia dell’ideologia.
Nella nebbia del tempo
quando tra le dune di pietra del Carso domina la notte,
mi pare di sentire le voci,
i canti e i silenzi di quegli uomini
che caddero nel ventre buio della terra
rinascendo per sempre nella Luce.

A loro vada il nostro pensiero, io termino con l’auspicio che la ricorrenza del Giorno del Ricordo possa essere un momento di pace e di ricordo dei tanti troppi morti, sgombro da rancori ideologici nel segno della pace.

crediti Arcipelago Adriatico

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