Dal dramma delle Foibe ai centri di raccolta

Profughi d’Italia 1943-1955 dal dramma delle Foibe ai centri di raccolta” è il primo degli incontri settimanali dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), che ha avuto inizio ,venerdì 25 Settembre, alle ore 17.00 presso la sede di Milano dell’associazione e in diretta via Facebook sulla pagina dell’associazione.

 L’incontro tenuto dall’esule istriana Annamaria Crasti è un meticoloso racconto della la quotidianeità dei profughi all’interno dei campi, ed offrirà spunti di riflessione su una storia ancora poco consociuta.

«Oggi abbiamo ancora una bella casa spaziosa ariosa dotata di tutti i confort che l’epoca permetteva, l’indomani non abbiamo più nulla. Vecchia caserma molto grande, obsoleta, bombardata ed abbandonata dai militari. Ho quasi 10 anni, ma smetto improvvisamente di essere bambina. Minuscole stanzette senza finestre con una coperta per porta. Servizi igienici precari ed in comune, quelli abbandonati dai militari. 

Sono una bambina adulta, non mi interessano più i giochi, non faccio amicizie perchè so e spero che la nostra sia una situazione provvisoria, perchè espormi ad altri addii, separazioni e sofferenze?» con queste parole inizia l’incontro di Annamaria Crasti, esule istriana, sui Campi di Raccolta Profughi (Cpr). 

Dal 1945 in poi c’è che ha provato la dura esperienza dei C.R.P. , ovvero dei “Campi di Raccolta Profughi”, in Italia. In questi campi è finita la maggior parte degli Istriani, Fiumani e Dalmati fuggiti dall’occupazione titina, terrorizzati da persecuzioni e vessazioni. Angoscia e paura aumentavano sempre di più, ogni volta che si veniva a sapere di gente “portata via” e, nella maggior parte dei casi, infoibata dopo periodi brevi o lunghi nelle carceri comuniste dell’OZNA, la polizia segreta di Tito, dopo aver subito torture morali, spirituali, fisiche in attesa di una morte terribile, che veniva annunciata e minacciata di giorno in giorno. Annamaria Crasti, esule istriana, ricorda «E’ capitata così anche al mio papà, Giovanni che è stato imprigionato nel carcere di Parenzo per 40 giorni e che, grazie a Dio, si è salvato».

Sono stati circa 350.000 gli esuli che hanno abbandonato la loro terra. Esuli, non emigrati, non profughi, perchè il gran numero di loro ha rivisto le proprie città, paesi, case, è ritornata a visitare i propri morti nei  cimiteri, non per rimanervi definitivamente, hanno rivisto la  loro terra solo da turisti. Queste persone considerano ancora la casa dove sono nati la loro casa, quando vado ad Orsera, ricorda Annamaria  «io dico sempre vado a casa mia».

Gli esuli sono persone che volevano “solo” vivere nella loro Patria, l’Italia, senza  paura. Purtroppo, l’arrivo in Italia, si è rivelato un incubo. Essere rinchiusi nei campi profughi una realtà che per molti  è durata anche quindici anni. 

Annamaria ricorda «Non bastavano le urla di odio, le grida astiose al momento dello sbarco a Venezia e ad Ancona, dopo quest’accoglienza in cui “Bandiera Rossa”, non il Nabucco, ci veniva sempre cantata contro, il cui comune denominatore era “fascisti tornate a casa!”, lo sventolìo di bandiere rosse con falce e martello».

Agli esuli era riservata una vita nei  campi profughi.  In Italia furono allestiti ben 109 Campi di Raccolta Profughi,  isole comprese. Le abitazioni  non erano altro che  scuole diroccate, caserme dismesse.  Fatiscenti, stanzoni enormi divisi da coperte che facevano da pareti. “Gli appartamenti” erano di quattro metri per quattro, senza letti. 

Solo pagliericci, sopra i quali avevano recentemente giaciuto centinaia, migliaia di soldati, scampati alla prigionia. I ricordi della vita in Istria in quei luoghi era ancora più presente,  così, le case,  la pulizia alla quale eravamo abituati, al lindore delle cucine e, soprattutto, l’essere vicini alle persone amate genitori, fratelli, amici, parenti, padri, madri e figli. L’esodo non ha solo significato l’abbandono delle case, ma ha anche diviso le famiglie che si sono potute ricongiungere dopo faticose pratiche burocratiche.

L’esodo ha portato alla distruzione di molte  comunità preesistenti in Istria, Fiume e Dalmazia. Gli esuli furono sparsi  per tutta l’Italia ed anche in molti altri paesi. Molti non hanno mai più rivisto parenti ed amici. La disperata lotta per la sopravvivenza  ha rubato tutto.

Annamaria Crasti, ricorda «Mia nonna materna, detta nonna Checca, 75 anni, fragilissima, fuggiva da casa nostra e percorreva sei chilometri tra andata e ritorno per recarsi alla mensa di Via Gambini, a Trieste, per rivedere i suoi compaesani, per rivivere per pochi momenti la vita finita, per parlare nel suo dialetto con parenti ed amici».

In quegli anni il partito comunista italiano di allora, nella persona di Palmiro Togliatti, era un grande sostenitore della Jugoslavia di Tito e assertore della Jugoslvavia fino all’Isonzo. Gli esuli hanno vissuto anni di sofferenze, schedati, sono state prese le impronte digitali come si fa ai delinquenti. I terribili Inverni senza niente per scaldarsi, la scusa era che  le autorità avevano paura degli incendi.

Notizie terrificanti arrivano dai Campi Profughi come quello di Padriciano, sull’altipiano triestino a 400 metri di altitudine, forse uno dei campi più decenti, Marinella Filippaz, di poco più di un anno, muore di freddo, era l’otto Febbraio 1956. Gli esuli erano vestiti con i pochi indumenti, portati con loro dalla fuga oppure indossavano quelli usati che regalava l’ECA, fatti di lana dura , troppo grandi o troppo stretti. Anni vissuti come se gli esuli fossero pericolosi delinquenti o come dei prigionieri, molti campi erano delimitati e circondati da filo spinato.

Dopo anni duri gli esuli riconquistano lentamente la loro dignità. I bambini ricominciano a studiare, tra i profughi si trovavano tanti maestri e professori. Alcuni stanzoni dei campi profughi sono trasformati in Chiese, dove si trovava conforto al dolore, ma dove si celebravano matrimoni e battesimi, tra i profughi esistevano tanti preti e frati e suore.

Nei campi  sono nati dei nidi, per accogliere i piccolissimi le cui madri, sconfiggendo la riluttanza, i pregiudizi e la diffidenza delle signore del luogo, andavano a fare i lavori più umili e pesanti come lavare le lenzuola, i pavimenti, lavori debilitanti che venivano pagati una miseria; si approfittava delbisogno di guadagnare qualche lira. Per accudire i piccolini c’erano tante ragazze che in attesa di lavorare si prestavano ad accudirli.

Chi poteva permetterselo comprava generi alimentari che gli permettevano di arricchire l’alimentazione povera della mensa. Uscire dai campi per molti era frustrante si era riconoscibili per la povertà dell’abbigliamento e si era schivati come degli appestati.

Nonostante la vita dura, i profughi cominciano a vivere.  In quei luoghi fatiscenti nascono nuovi amori, i giovani passano tanto tempo assieme, si conoscono, hanno le stesse origini, hanno sostenuto dure prove, si sposano. Saranno unioni felici che dureranno tutta la vita.

La solidarietà è il comune denominatore dei campi di raccolta. Le necessità spingono ad aiutarsi vicendevolmente la fuga, l’esodo, l’esilio hanno cementato la fiducia e l’affetto tra le persone. Sono nate amicizie durature che ancora oggi vivono tra i figli degli esuli. 

Dopo il 1950 nasce la possibilità di chiedere di essere trasferiti da un campo all’altro. Finalmente era possibile riunire le famiglie, si poteva vivere, anche se in modo precario, vicino ai fratelli, ai parenti. Ci si illudeva, così, di rivivere un po’ di quel passato perduto.

In quegli anni, ogni giorno, alla radio, c’era una trasmissione, ricorda Annamaria Crasti” Radio Venezia Giulia” seguita da tutti gli Esuli, serviva a scambiarsi notizie ed informazioni, dove si viveva, come si stava, un fratello che cercava la sorella, un mezzo utile per chi andava alla ricerca di persone care. La radio iniziava con “Fratelli giuliani e dalmati, vi chiama la Patria!” e, immediatamente seguiva il Nabucco, il nostro inno”. Annamaria ricorda “Non posso e, finchè vivrò non voglio dimenticare l’espressione degli occhi dei miei genitori e delle mie nonne. Occhi colmi di lacrime, smarriti, persi nei ricordi di persone che sapevano non avrebbero mai più rivisto. Le mani giunte, quasi in preghiera. Tutti tesi ad ascoltare i nomi delle persone e dei luoghi dove si trovavano. Erano centinaia le persone che, quotidianamente, tentavano di captare l’identità ed i luoghi in cui si trovavano i parenti lontani. Fratelli giuliani e dalmati, vi chiama la Patria!” conclude Annamaria chiedendosi “Ma quale Patria? La Patria che non ci avrebbe voluto ma che era costretta ad accoglierci con indifferenza, con astio? La Patria che ci chiamava fascisti? Quella Patria che non ci perdonava di aver abbandonato il meraviglioso paradiso comunista di Tito? Quella che ci faceva fare chilometri e chilometriper mangiare, a pranzo ed a cena, vecchi e giovani, ammalati e sani, bambini piccolissimi, estate ed inverno, con qualsiasi tempo, col sole ardente d’estate, col gelo, la pioggia, per anni ed anni? La Patria che ci faceva morire di freddo? Quella che ti costringeva a lavarti con l’acqua gelida, anche d’inverno? Quella Patria che ci faceva vivere nella promiscuità assoluta, provocando in noi vergogna ed ancora vergogna? Era quella la Patria che ci chiamava, ma per che cosa? Per farci capire che eravamo dei derelitti senza niente, neppure la speranza?”

“Sarebbe ingiusto”, afferma Annamaria “non ricordare chi ci ha aiutato, tra questi ricorda, Bracco, il proprietario dell’industria farmaceutica che, ogni giorno, si recava nei campi profughi attorno a Milano, per dare un lavoro ai profughi, anche se umile, preziosissimo. Lui era dell’isola di Lussino”

La FIAT degli anni ’50, dove sono stati assunti centinaia di profughi, che non avevano alcuna specializzazione. Probabilmente assunti per arginare e contenere il numero degli operai di fede comunista. La famiglia Agnelli pensava che non potesse esserlo chi era fuggito da una persecuzione messa in atto da Tito.

Ci sono stati enti e persone che si sono prodigati per aiutare e dare conforto ai profughi, anche se sono stati una goccia in un grande mare di indifferenza.

Annamaria rammenta anche una storia molto triste di un un piccolo lager di cui, fino a circa quindici anni fa, nessuno ha mai parlato. “E’ il Preventorio antitubercolare di Cima Sappada, nel bellunese. Supportato da enti statali e sfruttato da un medico triestino, connivente la Democrazia Cristiana di Trieste di allora. Approfittando delle condizioni di vita dei profughi, costui convinceva i genitori di bambini dai 5-6 anni in su’, un po’ fragili, che i loro figli avevavo bisogno di un drastico cambiamento d’aria, di ottimo cibo e di cure, altrimenti si sarebbero potuti ammalare di TBC.

Asseriva che erano sufficienti alcuni mesi passati in quella località posta a1300 metri di altitudine e tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi. Molti caddero in quell’imbroglio. Per mancanza d’informazione. I genitori, ignoravano che quel medico traesse enormi profitti da quel preventorio a danno dei bimbi.” Annamaria aggiunge “Furono ingannati anche i miei genitori. Hanno accettato che mia sorella di circa sei anni andasse là. E’ partita da casa una splendida bambina dal carattere allegro, piena di gioia, sempre sorridente. Tornata, dopo più di un anno, scontrosa, testarda, dal carattere difficile. Il medico asseriva che aveva bisogno di una lunga permanenza che prolungava di mese in mese. Quando si andava a trovarla era tranquilla, appariva serena, diceva di star bene.

In realtà era terrorizzata: le raccontavano che i genitori non la volevano più. La direttrice, un’autentica kapo, la minacciava pesantemente di maltrattamenti, se avesse raccontato qualcosa.

Quando, finalmente, l’hanno lasciata tornare a casa, dopo infinite insistenze dei miei genitori, ha raccontato una sola cosa:”Quando vomitavo, perchè il mangiare era orribile mi obbligavano a inghiottire ciò che avevo vomitato. Mia sorella non volle più raccontare di Cima Sappada.”

Dopo circa 50 anni ho saputo che due altre bambine del paese, di Orsera, esuli a Fertilia, sono andate a finire in quel lager, Marinella Grego e Marisa Brugna. Anche a loro vissero la medesima esperienza. Di tutto questo si legge nel bellissimo libro scritto da Marisa “Memoria negata” nella seconda parte “Nevi sadiche” da pagina 65 a pag.114, conclude Annamaria Crasti.

Dopo il 10 febbraio 1947 ogni Italiano si sarebbe dovuto sentire istriano, fiumano, dalmato. Ma, così non è stato. Per motivi politici, si preferiva essere comunista invece di istriano. La vita dura vissuta da molti esuli, non ha impedito che molti di loro riuscissero a riconquistare un posto nella società raggiungendo cariche e traguardi ragguardevoli in moltissimi campi.

Ecco alcuni esempi: Franco Viezzoli (famiglia di origine istriana), presidente di Finmeccanica e Enel, Sergio Marchionne, amministratore delegato FCA, Nino Benvenuti campione mondiale di pugilato, Abdon Pamich medaglia d’oro nella Marcia delle Olimpiadi di Tokyo nel 1964, Agostino Straulino medaglia d’oro a Helsinki nel 1952, splendido velista e ammiraglio, Sirola il grande tennista, Uto Ughi il famoso violinista, Ottavio Missoni, lo stilista. E tanti altri che sono la dimostrazione , di un popolo che, vessato, umiliato, sconfitto ha saputo tornare ad essere quello che era sempre stato e di cui Annamaria è fieramente orgogliosa di esserne parte.

Le notizie riportate in questo stralcio sui campi profughi sono materiale giunto da esperienze di vita vissuta da parte di molti esuli come Marina Smaila, esule fiumana che ha vissuto l’esperienza del Campo di smistamento di Udine per essere poi dirottata ai CRP di Mantova e Verona.

Dei CRP lombardi di Brescia, Bergamo e di Monza, autrice è la professoressa Maria Elena Depetroni.

Altri campi profughi presenti in Italia come a Tortona ex Caserma Passalacqua, in Piemonte a Torino fu allestito alle Casermette, in ogni campo storie simili sono state vissute dagli esuli. I Cpr nei quali furono costretti a vivere i profughi erano disseminati nel restante territorio della penisola.

crediti immagine Cpr Casermette – Torino. Crediti museo di Torino

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