Le casermette centro raccolta profughi a Torino

Pubblichiamo il ricordo di Vieri Cvetnich Margarit, esule di Fiume, arrivato in Italia ha provato l’esperienza del campo profughi. Al suo arrivo ha soggiornato al centro raccolta profughi di Torino, conosciuto con il nome di Casermette.

«Sono Vieri, nato Fiume l’11 Gennaio 1946 e, come tanti altri Giuliani o Dalmati, ho vissuto l’esperienza del C. R. P. ovverosia i “Centri di Raccolta Profughi dal mio arrivo in Italia, nel mese di Ottobre 1948 e fino a fine 1955. Vieri è il mio nome, che ho scoperto essere italiano e molto antico (XIII sec.), ma tralascerei di parlare di chi lo portò allora, tale Vieri de’ Cerchi, politico e banchiere fiorentino per menzionare con maggior enfasi il Vieri da Vallonara, che contese al Rinaldo d’Angarano la mano della bella Principessa Lionora, sfidandolo ad un singolare duello: la partita a scacchi umani in piazza a Marostica, uscendone vincitore.

Comincio a macinare ricordi sensati proprio dalle Casermette di Torino anche grazie ad alcune fotografie, ma sicuramente grazie alle emozioni vissute ed incise, mentre dei campi di Chieti e di Mantova (17/10/1948 – 03/05/1951) ho l’affioramento di tali “sensazioni” da qualche flash e dalle date sui documenti. Felicemente pensionato, ho un percorso tipico “da città industriale”: diploma di scuola professionale > operaio Michelin > tecnico di manutenzione per fotocopiatrici > venditore (vari generi e/o tipologie di prodotti) da prodotti chimici agli arredi per negozio > artigiano installatore elettrico > ufficio tecnico in Università.

Ma tutto questo ne racconta soltanto un pezzo, quello ufficiale e principale; a volte capita di essere impallinati di musica, sia da ascoltatore che da “produttore”, e il fatto di instaurare al volo un rapporto umano aiuta molto; casualmente conosci chi ne canta due in piazza, Pino, ci torni, poi suoni (pardon: strimpelli, ché far musica bene è tutt’altra cosa), poi conosci altre realtà, che ti metti a frequentare; poi conosci il Michele della situazione, che conosce molto bene usi e costumi del suo Piemonte, e da lui impari a leggere ed a scrivere il piemontese, vai con queste “Voci Grigie” a cantarne due in una qualche biblioteca o luogo di ritrovo, circoscrizionale.  La musica è una passione suonata di piazza, in piazza, dove ti capita di conoscere persone che mai più avresti immaginato, una che magari sta in Giappone (vero) o chi t’invita in Olanda “venite, che ho tante camere e non ci sono problemi”. Adesso invece è un pasticcio “per pandemia” anche con le prove del coro.
Ecco,  i miei ricordi del Campo Profughi di Torino, via Veglia, che credo riporti un aspetto sconosciuto o quasi, ai torinesi di ieri e di oggi, cioé come sia vissuta una Comunità numerosa, onesta, laboriosa e rispettosa, mai abituata a fare chiasso o gesti clamorosi. Specificandovi che “Il Campo”, anche se fisicamente erano due realtà distinte e vicine, nella memoria di tutti quelli che ci sono passati; chi ne parla e per qualsiasi motivo lo faccia abbina sempre un sorriso, a quei ricordi. Significativo, o no? Vale la pena capirne un po’. 


Le “Casermette” di Borgo San Paolo, quelle di via Veglia. Erano due ex caserme, adattate all’utilizzo per C.R.P. -Centro Raccolta Profughi- cioè svuotate di ogni tipo d’arredo. Nonostante le difficili condizioni del momento (sono arrivato a Torino il 3 maggio 1951) la mia gente, la “nostra” gente, cioè i Profughi Giuliano Dalmati, ha continuato per sopravvivenza morale quello che era stato il loro stile di vita, anche facendo in modo che il figlio imparasse musica, imparasse a suonare uno strumento: “Chi gettò la luna nel rio…”
era una canzone attuale, e doveva avere una sorta di valenza musicale o didattica perché  spesso suonata da una fisarmonica. Tra coloro che così si esercitavano c’era Toni, amico che frequento ancor oggi per “ciacole” (chiacchiere) o per musica e  in Associazione.

Avevo poco più di cinque anni, e qui torno alla sopravvivenza, ma quella più immediata: la ricerca di un lavoro, quella di una sorta di abitazione, il rintrecciare una vita di relazione con gente nuova, e così via; ricordi del bambino e deduzioni dell’adulto o del vecchio. Sono nato a Fiume e siamo arrivati a Torino da Mantova, prima ancora eravamo a Chieti, dal mese di ottobre 1948, in strutture analoghe. Ricordi sbiaditissimi di Chieti: sentivo parlare in un modo che non comprendevo, ma stavo imparando la vita propria dei miei due anni e mezzo. Anni fa ci sono tornato, in via Padre Valignani, ma non ho avuto la fortuna di poter entrare perché la struttura era chiusa per lavori; di Mantova qualche cosina in più, due o tre famiglie particolarmente vicine umanamente ed affettivamente, nella stessa condizione, ricordo confuso di uno spettacolino al Teatro Sociale, ma visto dal
palcoscenico per via di una canzoncina cantata ed un mare di caramelle piovute durante l’esecuzione. Si può osservare un’altra curiosa coincidenza con il “pianeta musica”.

Sono il numero 33, ma ricordo gli altri: bene e quasi tutti. Il mio primo ricordo di Torino è una gran pioggia, proprio all’arrivo a Porta Nuova, quel 3 maggio e, molto vagamente, un camion col cassone; poi, si si, stanze strane, amici nuovi, giochi ma, sostanzialmente, stavo bene ed ero tranquillo. Tutto questo significa che molti “grandi” sono riusciti a pararmi i colpi, a farmi vivere un’esistenza protetta fino ai miei primi passi da ometto autonomo: a volte mi sono rivisto nel ragazzino di Benigni nel film “La vita è bella” e solo dopo me ne sono reso conto: allora mi pareva tutto normale.

Le poche masserizie, essenziali, si perdevano nel camerone (che come grandezza era una camerata militare): UN armadio, UN letto matrimoniale, UN tavolo con sedie, una specie di mobiletto che fungeva, oltre che da contenitore di “di tutto, di più”, anche da piano d’appoggio per la Primus. Ah, cos’è la Primus? …o cos’era: era il fornelletto per cucinare e funzionava a petrolio, che allora si acquistava sciolto, allo spaccio (che era il negozio/emporio interno ad uno dei due campi) dove comperavi il pane, la verdura, mentre il Latte della Centrale doveva ancora essere inventato, come la Centrale del Latte del resto.

Nel camerone ci stavano, di norma, due famiglie e di conseguenza l’arredamento era doppio, quindi “due di tutto”; la famiglia con la quale condividevamo la spazio era di Dignano d’Istria, lo stesso paese di provenienza di Toni  ed erano Tonin Baressi, Catina e Lidia: indimenticabili, come del resto tutti gli altri. La suddivisione a metà del camerone si otteneva piazzando gli armadi affiancati, verso il finestrone, e veniva così delimitata la zona della camere “da letto”; dall’ultimo armadio alla porta d’ingresso al camerone, unica, dal corridoio centrale, erano stati posti due fili di ferro in modo da formare una “V” a mo’ di disimpegno, quindi mediante due coperte si ricavava un minimo di riservatezza, almeno visiva, tra i due “appartamenti”.

Termine pomposo quest’ultimo, in quanto sopra gli armadi per almeno un metro e mezzo non c’era niente. Erano molte le famiglie “giovani” e, ad esempio, i miei genitori avevano trentadue anni il mio papà e venticinque la mia mamma, ed è per alcuni aspetti strettamente legati alla vita “vita” che ho usato l’aggettivo “pomposo”: da sopra quegli armadi passavano tutti i rumori, e potevi riconoscere chi sternutiva, o chi stesse parlando, o un mal di pancia, un bacio, o… Sicuramente non è bastato un lungo momento di difficoltà per far perdere i valori di tutta questa gente: civiltà, discrezione, educazione, riservatezza. C’è tutta una generazione nata in quegli anni, e tutto questo qualcosa vuol dire.

A proposito, avevo sentito allora nuovi modi di dire o, meglio, di parlare che per me erano quasi incomprensibili perché, anche se mi suonavano bene i diversi dialetti locali di noi profughi giuliano-dalmati, c’era la cadenza particolare di chi arrivava dalla Grecia o dalle colonie del periodo precedente la guerra, alcuni italiani dalla Romania; immediata l’intesa tra ragazzini, credo che lo sia stata anche per i grandi, perché la necessità di sopravvivenza è un catalizzatore unico. La polazione era numerosa, tanto da occupare  fabbricati, chiamati “padiglioni”: erano dieci, a forma di “U”, distinti in “Primo braccio” e “Secondo braccio”; a distanza di settant’anni è difficile ricordare quanti cameroni ci fossero in ogni braccio, ma mi sembra che fossero dodici; a due famiglie per camerone diventano ventiquattro; nella parte frontale, verso la strada, ce ne stavano altre sei, quindi il totale per ogni padiglione era di (24+24+6=54) cinquantaquattro famiglie, almeno.

Dieci i padiglioni, ma nove e mezzo utilizzati per l’accoglienza e mezzo per altri “servizi per la comunità”; tutto questo ha richiesto un’organizzazione per vari aspetti. Quello principale è che Torino è stata la città con la più numerosa affluenza di profughi giuliano-dalmati di tutta l’Italia, e potrebbero essere ragionevolmente più di cinquemila, e con dati comunque reperibili (ANVGD Torino, prof, Gianni Oliva, F. Cavallero, E. Miletto); la ricerca di un lavoro era il presupposto fondamentale per poter ricominciare una vita.

Adesso mi riferisco al “secondo campo”, cioè quello che interessa anche via Guido Reni: per “altri servizi” intendo principalmente la parte con le aule scolastiche, elementari a classi miste, che erano una succursale della scuola “Pietro Baricco”; dietro, classicamente al fondo e verso il muro perimetrale, una camera mortuaria; delle due palazzine che ancora oggi danno su via Guido Reni, una era abitata, l’altra ospitava gli uffici e l’infermeria dove venivano effettuate anche le vaccinazioni, oppure altre medicazioni (ricordi diretti…).

La distinzione tra “primo e secondo campo” era una definizione pratica, in effetti si trattava delle ex caserme site in via Veglia ai numeri 33 e 44, ed i servizi per la comunità stavano da una o dall’altra parte; oltre a scuole ed infermeria, come già detto, dalla stessa parte si trovavano la chiesa con l’oratorio, la baracca della posta molto attiva, vicino al cancello principale, quindi comoda da raggiungere anche per chi veniva “dall’altro campo”, e forse un banco di pescivendolo; appena fuori, dietro l’angolo, una bancarella di frutta e verdura: mio nonno aveva avuto dal Comune una licenza commerciale per via dell’attività abbandonata in fretta e furia a Fiume; tornando all’interno del campo c’era un negozio “multifunazionale” e strutturato, con tanto di tabelle comunali esposte sulla facciata, quelle in alluminio, dove si poteva comperare indifferentemente il pane, il latte, la conegrina, il petrolio. Petrolio? Si, quello serviva per le “Primus”, il fornelletto a fiamma viva di cui vi ho accennato prima, che era la cucina economica di allora, praticamente per tutti.

Fortunatamente era già disponibile l’illuminazione elettrica tenuta al minimo, per via dei prelievi limitati: leggerete più avanti. Dall’altra parte mi sembra di ricordare un campo da calcio, cioè uno spiazzo con due porte, ecco… ma che ogni tanto ritorna nei miei sogni, poi un altro locale tipo spaccio militare, funzionante da bar, da ritrovo per una partita a carte, un momento di riposo mentale. E poi il cinema che credo gestito dalla parrocchia, perché funzionava per noi ragazzini in questo modo: la domenica pomeriggio entravi gratis presentando tre contromarche; che ricevevi se partecipavi alle funzioni, cioè la benedizione del sabato pomeriggio, la S. Messa della domenica mattina, l’altra benedizione la domenica pomeriggio; si, potevano essere questi tre gli appuntamenti. Per ogni bigliettino eventualmente mancante dovevi pagare 10 £. In tutti i casi eravamo davvero tanti a frequentare la chiesa e l’oratorio.

All’interno dei due campi non vi era traffico salvo le varie biciclette; risultavano così godibili degli spiazzi enormi, erbosi, anche per la semplice permanenza all’aria aperta, ma la facevano “da padrone” giochi come “el pindolo” (la cirimela), o qualche fionda, un arco fatto con i ferri degli ombrelli rotti, il cerchio (normalmente un cerchione di ruota di bicicletta, senza i raggi, da spingere e manovrare con un ferro sagomato ad hoc, o con un bastone). Chi poi riusciva a procurarsi tre cuscinetti a sfera, era fortunatissimo perché poteva costruirsi l’ambìto carretto a tre ruote, con quella anteriore sterzante.

Non era certo per meriti particolari che si stesse lì o all’oratorio: fuori non c’era niente, solo qualche casetta su via Veglia; un po’ più di movimento dall’altra parte, dove stava nascendo Città Giardino, non c’era ancora quella strada che sarebbe diventata corso Allamano. Ma davanti ai due campi ad un certo punto è comparso il pullman, uno di numero, piccolo, che faceva la spola tra via Veglia e piazza Sabotino, arrivando da via Pollenzo (che tutti subito avevano preso in simpatia, grazie all’assonanza con la cittadina diParenzo), faceva capolinea dietro il negozio di Viecca. Era quella la città, in un’espressione di ripresa di vita, condizione alla quale molti volevano ritornare, proprio per riprendersi la normalità strappata loro anni prima.

Ma le mamme avevano anche scoperto il “Piccolo Valentino”, la collinetta di parco Ruffini; era già un posto avventuroso per giocare, che negli inverni nevosi si “popolava” le slitte fatte in casa, con legno ovviamente recuperato: la prima che mi ricordi d’aver visto, l’ho vista lì, realizzata col legno di una cassetta ed una striscia di reggetta metallica perché scivolasse meglio. Comunque non è stata l’unica “macchina” che mi ha incantato: sono rimasto a bocca aperta anche quando ne ho vista una vera, di macchina, un’automobile, coperta quasi sempre da un telo di protezione, come fosse una cosa rara; poteva essere una Lancia, forse un’Ardea, di un signore Istriano che aveva fatto il taxista, al suo paese, e che poteva aver accompagnato un cliente a Trieste, per esempio, ma senza rientrare. Tipo vivo; aveva, se ricordo bene un soprannome particolare: “El Garbin”, ma non saprei per quale motivo.

Avevo compiuto sei anni ma non andavo a scuola. Avevo compiuto gli anni a gennaio e non potevo essere iscritto nell’anno scolastico precedente, ma ho provato comunque la scuola indirettamente, nel senso che non ero uno scolaro ufficiale ma andavo come nipote del maestro Guido, anche lui profugo, zaratino mi pare, che insegnava in una classe collettiva (dalla prima alla quinta) mista a Rivarossa; per me, abituato alla pianura, era strano vedere il lato scosceso del paese ed altre novità, ma a mia volta ero io la novità per gli altri occasionali compagni di classe, che mi hanno fatto sentire uno di loro, dal primo momento. Con l’anno successivo, mi sono ritrovato in prima, ma avendo già imparato a scrivere e a leggere. Alla fine dell’anno scolastico un esame superato, da privatista, mi ha permesso di continuare regolarmente dalla terza elementare. 

Una “prima“ particolare, un’altra questa della scuola. Altra prima è stata sicuramente una bicicletta, una “Carlo Carrà” nuova, un motivo d’orgoglio soprattutto per papà, che aveva trovato (come tanti altri) lavoro; ovviamente è arrivato anche il primo volo, con la bici, e con atterraggio sul mento che ricorda ancor oggi quell’impatto. Primo serio incidente casalingo e non è stato uno scherzo: nei padiglioni, al fondo, ci stavano i servizi (gabinetti alla turca) da una parte, i lavabi dall’altra: queste condizioni ”invitavano” a tenere dell’acqua nel mobiletto della Primus. Mi è capitato che un pomeriggio, svegliatomi assetato dal riposo pomeridiano, ho preso una bottiglia dal mobiletto e, sentito il movimento del liquido, ne ho bevuto un bel sorso mettendomi ad urlare immediatamente: non era l’acqua che mi aspettavo, era conegrina, candeggina, quella che si usava molto volentieri per mantenere in ordine e disinfettati i gabinetti (anche se di solito lo stesso, uno per le due famiglie coabitanti): i grandi mi hanno fatto bere una dose folle di latte e la cosa è terminata lì. Ah, si, anche la conegrina veniva venduta sfusa, lo avete letto poco prima.

Siccome non è bello parlare di bere senza parlare di roba da mangiare, ecco una “prima” gastronomica: la mamma di Paolo Bre. mi chiede se resto a mangiare con lui, avvisa mia mamma e ci mettiamo a tavola; quando torno a casa mamma mi chiede cos’ho mangiato e le rispondo che avevo mangiato “la carne, fatta di tanti fili”, e così avevo conosciuto il primo bollito. Casa viva anche quella, mamma allegra, del papà oggi ricordo poco o nulla tranne l’impressione di papà attento e pacato, Paolo con una mano invidiabile per disegnare. Ne mancavano di cose: da quelle abbandonate per salvare la pelle, alla tranquillità economica, alle comodità cui si era abituati; c’erano pochi soldi, ma non mancava la voglia di vivere, non mancava il senso di comunità pur se ci si era appena conosciuti.

A sorpresa mi sovviene una voce: “Stache’ i fornei” (staccate i fornelli) cosa che oggi, leggendo questi lontani ricordi da vecchio elettricista,  significa che alcuni preferivano non avere fiamme libere, per loro sicurezza, in questi “locali-casa” e quindi optavano per un altro sistema di cottura.

Non solo: qualcuno capace, attraverso un piccolo foro nello sportello metallico chiuso, con un ferro da calza riusciva a ripristinare l’interruttore generale, limitatore; ma ciò vuol dire che l’impianto era munito di una protezione automatica, tipo magnetotermico, attuale già negli anni passati, ma negli anni’50 penso di no. E questo fatto, letto oggi, è notevole.
Comunque la “casa” veniva vissuta poco dai ragazzini in quanto fuori non c’erano pericoli di traffico; si andava all’oratorio dove si faceva a turno per un giro sull’altalena o sul “passo volante”, si inventavano le più strane competizioni, ma sul passovolante si rischiava di finire a sbattere contro il palo centrale per spostare (per il prossimo giocatore) o recuperare la pietra, spirito del gioco; sull’altalena, invece, la prima cosa da imparare era quella di “spingersi” autonomamente; la seconda era imparare ad andarci stando in piedi; la terza era decisamente da temerari ed era saltare all’altalena. “Strana” era il saltare più distante degli altri, anche se non c’erano coppe in palio: al limite dei punti, ma quelli erano punti di cucitura perché a volte, almeno una, il campione e finito direttamente sul tronco di una delle piante davanti, e non vicine… ahi che botta.

Dei due sacerdoti presenti, uno ha seguito una parte della comunità anche dopo la sistemazione più stabile in case (case Fiat in via Nizza/Millefonti, case popolari a Falchera o “Villaggio” S. Caterina da Siena, a Lucento); don Pierino Chiavazza è stato il punto di riferimento non solo religioso, senza nulla togliere all’altro; poi ci sono stati i loro percorsi e ci sono stati altri avvicendamenti, ma oltre vent’anni fa qualcuno “dei nostri”, e giovane di allora, ha pensato di combinare un incontro del secondo campo, con ingresso ora da via Guido Reni, e con don Pierino a celebrare una S. Messa. Per me è stato tornarci dopo più di quarant’anni, con ricordi ed emozioni a go-go, in un clima gioioso “al quadrato” e con un maresciallo che non riusciva a capacitarsi di come quelle centocinquanta persone fossero lì senza un responsabile.

Era una bella giornata, quella, eravamo in tanti; mancava solo l’uomo del triciclo dei gelati, al quale chiedere: “Dammi un gelato da dieci lire”; probabilmente allora sarebbe arrivato con un camioncino, bello, colorato e scritto, a distribuire i suoi gelati, ed esibito in mostra su un trasparente rimorchio “quel” triciclo, che mi pare sia esposto ancor oggi nel Museo dello stabilimento della Sanson, a Colognola ai Colli, in provincia di Verona. 

“Ma tu vai a Falchera o a Lucento”? Sto parlando della domanda più frequente tra noi; era il 1954 o 1955 e c’era questa aria di novità più che di smobilitazione; il grande e mai sopito desiderio di una casa, con una porta a segnare l’intimità e l’individualità della famiglia, di ogni famiglia, era l’argomento di attualità dei grandi che si rifletteva anche nei più piccoli. Nessun dramma, nessuno di noi “piccoli” ha pensato a cosa sarebbe successo in seguito perché era un naturale passo successivo della vita, nella vita». 

(crediti Museo Torino)

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